La scomparsa di Ivan Fassin, direttore del Corriere della Valtellina

Notizia shock stamane. Il prof. Ivan Fassin, attivissimo intellettuale valtellinese non c'è più. Aveva salutato altre persone ieri sera e poi a casa. Si è coricato e non si è più svegliato.

Classe 1938 è uno dei tanti valtellinesi che hanno duramente pagato l'infamia della guerra crescendo senza il padre rimasto nelle steppe russe e per fortuna con una madre e una nonna che hanno saputo trasmettere al figlio e all'abbiatico i valori che contano. Da ricordare la sua sposa, Franca, dal '94 al '98 assessore alla cultura, che lo ha preceduto quattro anni fa.

Di seguito una nota, lunghissima ma con ragione perchè la sua scomparsa sottolinea ulteriormente l'inaridirsi in provincia di quello che dovrebbe essere primo alimento per la disciplina della polis. Pimal'intervista, di fatto una autobiografia, rilasciata da lui alla Cisl, di cui fu dirigente anche nazionale, e poi il suo intervento al Convegno promosso da Valtellina nel Futuro, 14 luglio 2012 “Autonomia dei Territori. Una lunga storia che continua”.

Prima però due ricordi.
      Uno che affonda nella notte dei tempi, anni 1962/65, gli anni delle quattro sessioni del Concilio “Vaticano secondo”. Allora con un gruppo di amici quasi con i pantaloni corti avevamo fondato il CID di cui la sezione Circolo Musicale, uno dei tre settori, è alla 53ma stagione concertistica. Nel settore culturale, affidato alla guida di Ivan, nella sede di Via Dante si approfondivano i temi del grande Concilio con alcuni giovani che poi saranno ai vertici della cultura politica e della politica provinciali nonché delle Istituzioni. Saranno su versanti diversi con rapporti però non di scontro ma di confronto, grazie ad una formazione reciprocamente utile e produttiva.

      Il secondo è recentissimo.
Tal quale in data 29 aprile: “Caro Friz, come saprai, sono (pro tempore) direttore del Corriere della Valtellina (finché dura). Ci siamo messi in testa (con Dioli) di fare un numero sul singolare tema “MEGLIO LA VERITÀ”, per offrirci, ed offrire ai molti disagiati della situazione italiana (e non solo) di esprimere una opinione articolata o un parere, nella convinzione che quando non si sa che cosa ‘fare’ ci si provi almeno a ‘dire’. Ora ho visto che sulla Gazzetta avevi pubblicato un pezzo che parlava della falsità dei numeri che pretendono di farci credere, in economia, e forse anche in tanti altri campi. Non mi (ci) scriveresti un pezzo (breve) sul questo tema generale, magari a partire da quello scritto o da altre fonti? Se ce la facciamo, vorremmo arrivare a stampare il numero prima della fine del mese di maggio. Puoi farci questo pezzo? 
Ti ringrazio fin d’ora. Ciao Ivan

  Risposta positiva. Far circolare le idee è sempre stato una sorta di imperativo categorico. Fra il dire e il fare c'è però di mezzo il mare perchè il campo da arare è vastissimo e appagante è il solo pensarci.

  Il 12 giugno Ivan “Per memoria ti allego la 'provocazione' sulla quale chiedevo la tua collaborazione. Sappimi dire qualcosa”. La “provocazione” merita, subito, la pubblicazione.

NOTA PREPARATORIA/ PER UN NUMERO DEL CORRIERE DELLA VALTELLINA: MEGLIO  LA VERITA’
Il numero vuole fare un punto di verità sulla situazione in cui ci troviamo (certo dai punti di vista di ciascuno, solo uniti da una intenzione semplice, senza pretese di andare oltre la nostra esperienza e le conoscenze che ci è stato possibile acquisire). Soltanto  partendo da una convinzione che è necessario cambiare, anche se ancora non sappiamo bene come.
Veniamo da provenienze eterogenee, storie complesse, ma non tali da impedire un dialogo, una interrogazione comune.   Storie che non vanno rinnegate, ma in qualche modo superate se davvero si vuole cambiare.
E’ un discorso  che nasce dal profondo disagio, in troppi campi,  personali, ma soprattutto pubblici: politica, certo, ma più in generale società, costume, etica pubblica e privata, cultura, civiltà… Soprattutto nasce dalla impressione che  NON ci venga raccontata la verità su troppe cose che ci riguardano…
Non crediamo che si possa, per ora, andare oltre interrogativi pensosi. Riguardanti anzitutto  la realtà locale, ma senza escludere riflessioni che spaziano su orizzonti più ampi (paese, provincia, regione, nazione, Europa, Mondo…). Anche perché siamo comunque collegati come mai lo siamo stati finora.
Siamo in un momento  discriminante,  che potrebbe preludere a ulteriori involuzioni o anche a un collasso (è già stato profetizzato), oppure che precede la (ri) costruzione di una politica degna di questo nome.  Democrazia, partecipazione, giustizia, benessere, ecc. sono percorsi che vanno ridefiniti, ripensati. Per le troppe strumentalizzazioni che sono state fatte di queste parole e di quel che indicano o promettono.
Il cambiamento deve perciò essere preceduto da una riflessione veramente  ‘catartica’: siamo stati in-capaci di governare il mutamento violento, lo abbiamo subito, senza riuscire a trasformarlo in un cambiamento voluto, governato, abitabile… Perché? Come? E come andare oltre?
Intuiamo che sarà necessario cambiare paradigma socio-politico e culturale, antropologico. Ma ancora non è dato di capire come, quando…
In ogni caso, dovremmo dire le cose che vogliamo dire in un modo accessibile, per allargare il discorso ad altri, senza altre pretese se non quella di avviare una rete di scambi. Crediamo che valga comunque la pena di fare una prova…

L'ultimo messaggio
Alla mia e-mail dello scorso 18 giugno, per certi versi allucinante (“Non ho mica idea di cosa ho poi combinato.. Leggi e poi vedi tu! Ciao) e allegate le 3112 parole con quasi 20.000 battute) la risposta di Ivan “Grazie. E' molto lungo, dovrò inevitabilmente procedere a tagli anche grossi. Ma mi hai praticamente autorizzato!
Ciao Ivan.
L'ultimo ciao.
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L'intervista Cisl a Ivan Fassin già insegnante nel liceo classico di Sondrio, poi preside (Ist. Magistrale di Sondrio), in esonero sindacale dal 1976.
 
Ho cominciato a interessarmi di sindacato appena entrato nella scuola, quando ancora ero supplente, a Monza. Certo per suggerimento di qualche collega più anziano, ma anche e soprattutto per le difficoltà e ‘ingiustizie’ che vedevo in quel primo accostamento al lavoro. Allora nella scuola secondaria c’era praticamente solo il Sindacato autonomo, ancora per poco ‘unitario’ (al suo interno c’erano tre o quattro ‘correnti’, una ‘cattolica’, una ‘social-comunista’, una ‘laica’ ecc.). Devo dire che era guidato, anche a Sondrio, dove mi trasferii quasi subito, da persone di un certo prestigio e rilievo anche intellettuale. Anche grazie a questo clima culturale credo di aver sempre immaginato il sindacato non solo come una struttura di difesa dei ‘lavoratori’, nel nostro caso gli insegnanti, ma anche di attenzione agli ‘utenti’ del servizio che si svolgeva: alunni e famiglie, in prospettiva la comunità locale.
Questa motivazione si esprimeva in una forte esigenza di ‘riforme’ capaci di dare luogo a una scuola più efficace e utile, e insieme tali da esaltare la professionalità degli insegnanti. Questa è una costante che mi ha sempre accompagnato, e che ho avuto la fortuna di poter sviluppare, nei limiti della mia azione, anche se il ‘riformismo’ in Italia non ha certo avuto grandi successi, nel pubblico impiego in genere, e anche nella scuola.

Fu anche per questo che nel 1970 passai - passammo in 7! - alla CISL. Il Sindacato confederale, nato da pochissimo a livello nazionale, pur tra molte difficoltà, si presentava come uno spazio più idoneo a sviluppare quelle idee e quelle esigenze di riforma. In quell’anno venne a Sondrio il Padre Reguzzoni, che, nel corso di una conferenza sui problemi di riforma della scuola, si espresse senza mezzi termini a favore del sindacalismo confederale, per i suoi collegamenti col restante mondo del lavoro, la sua superiore ampiezza di vedute. Ma da qualche anno operava in provincia Achille Pomini, e certamente sulla nostra scelta influì il suo nuovo attivismo, la sua visione di un movimento sindacale fortemente impegnato in una politica attiva di cambiamento che coinvolgeva tutte le categorie in uno sforzo comune, a partire dalle esperienze dei sindacati dell’industria. A determinare la scelta concorse poi l’azione di due persone in particolare, due colleghi più anziani, purtroppo scomparsi entrambi, che ricordo qui con commozione e gratitudine: Geremia Fumagalli (noto pittore locale, ma anche valido insegnante), e Martino Cornaggia. Devo a loro gran parte delle mie idee sul sindacato e anche, credo, della mia ‘carriera’ sindacale. Furono loro, infatti, che mi costrinsero quasi subito a fare il Segretario locale della categoria (SISM, il sindacato CISL della scuola secondaria), pur assicurandomi la loro assistenza e il loro aiuto.
Ricordo anni difficili, perchè le modalità dell’uscita dal SNSM (Sindacato nazionale scuola media), in piccolissimo gruppo e prima che vi fosse la scissione che poco dopo portò nella CISL, a livello nazionale, un grosso contingente della corrente ‘cattolica’, ci costrinsero a recuperare iscritti uno alla volta. A fianco avevamo un grosso sindacato della scuola elementare (SINASCEL), dalla storia completamente diversa, col quale l’intesa, come ovvio, non era sempre facile (ma il rapporto coi segretari succedutisi, a cominciare da William Marconi, fu sempre significativo e costruttivo). Alterni per lo più erano anche i rapporti con i sindacati scuola CGIL e UIL, inevitabilmente resi difficili dal rafforzamento identitario e organizzativo seguito alla fuoruscita dal SNSM e ai nuovi apporti di personale precario.
In quegli anni si tentò una prima ‘vertenza scuola’, per la democrazia e lo sviluppo professionale degli insegnanti, avendo come controparte il Provveditorato retto allora con metodi fortemente autoritari.
Subito dopo (1973-74) vi fu la stagione dei ‘decreti delegati’, che introdussero gli organi collegiali di gestione delle scuole ai diversi livelli. Vi furono momenti di grande entusiasmo, anche di lotta (ma mai...di massa!), faticose riunioni di elaborazione e/o di scontro nelle scuole e a scala provinciale. L’esito, è noto, non fu entusiasmante né qui né altrove. Soprattutto, mentre si voleva portare la società dentro la scuola, di fatto si operò nella separatezza, senza riuscire ad affrontare i veri nodi istituzionali e le nuove problematiche culturali. Come sempre in Italia, la volontà politica centrale si disperdeva per i rami dell’amministrazione, buone norme sulla carta non erano seguite da comportamenti coerenti.
In questi anni ho avuto come validi collaboratori Agostino Nonini, Lorenza e Margherita Bettini, e tanti altri che poi hanno scelto altre vie. Più tardi, quando operavo già fuori provincia, ricordo il ruolo di segretari della categoria svolto da Renato Arduini e, dopo ancora, da Enrica Piccapietra e, ora, da Filippo Maiorana, con stili diversi ma simile impegno e serietà.
Qui da noi anche l’esperienza delle ‘150 ore’ (che portava gli operai a scuola per conseguire un titolo, ma anche per affermare un diritto e un dovere di conoscenza), malgrado l’impegno unitario, non ebbe il risalto dovuto, certo anche per insufficienza nostra, oltre che per la sordità ambientale. Anche in questo si perse una occasione per cambiare davvero la scuola.
Nel frattempo frequentavo anche gli ambienti regionali e nazionali del SISM, conoscendo molti attivisti e dirigenti, scambiando esperienze, e partecipando a battaglie interne per un rinnovamento della dirigenza. Così cominciò la mia avventura regionale (prima in segreteria e poi, per circa due anni (1977-79) come segretario unico), e quindi, dal 1980, nazionale. In segreteria SISM a livello nazionale ho sempre svolto compiti coerenti con i miei interessi prevalenti: professionalità dei docenti, sperimentazione e riforme, formazione sindacale. Questo mi ha portato anche a esperienze collaterali di carattere più istituzionale: nel Consiglio dell’IRRSAE (Istituto regionale di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi) Lombardia dal 1979 all ‘84, nel Consiglio della BDP (Biblioteca di documentazione pedagogica) di Firenze dal 1985 al 1995, nel secondo quinquennio anche come Presidente, e, ancora, nella Commissione Brocca per la revisione dei programmi della secondaria.
Non è qui il caso di riferire di queste vicende, che vedo oggi con occhio spassionato come un dispendio di energie forse necessario e inevitabile, anche molto positivo dal punto di vista personale, per la gran quantità di conoscenze e di incontri che mi hanno permesso, ma non sempre soddisfacente in termini di risultati, che certo non dipendevano soltanto dalla mia azione... Ho comunque avuto la fortuna di vivere una stagione di grandi attese, di grandi speranze. Almeno a una riforma di questi anni credo però di aver apportato qualche contributo, ed è quella dell’autonomia delle scuole. Una riforma che credo importante, la più importante di tutte, se la scommessa che essa contiene sarà sviluppata coerentemente alla scala locale (che è poi la scala giusta del servizio culturale da offrire), ossia se il personale dirigente e docente, e anche amministrativo e ausiliario, saprà assumersi nuove responsabilità professionali, anche per ottenere una diversa considerazione sociale, e, ancora, se la società circostante comincerà a porre alla scuola domande più realistiche, per ottenere risposte sensate, smettendo con una assurda contesa all’insegna di grandi ideologie (o solo parole d’ordine) e piccolissimi interessi privati.
Nel 1995, quando si stava esaurendo il percorso romano (e fiorentino) per conclusione dei mandati statutari, ho accettato la sollecitazione di Enrico Dioli per un ritorno in provincia a operare nella segreteria della Unione, in coincidenza con la sua uscita per candidarsi alla presidenza della Provincia. Anche qui i settori di competenza assunti sono stati coerenti con esperienze e interessi pregressi: formazione sindacale (avevo cominciato già prima a fare qualcosa sul piano locale), pubblico impiego, istruzione e formazione professionale, mercato del lavoro, sanità. In quest’ultimo settore però ho dovuto imparare quasi tutto, lavorando fianco a fianco con Oliviero Barbetta che si era fatto precedentemente una esperienza nel campo. In materia di istruzione ho insistito molto nel 1996 perché l'Amministrazione provinciale stipulasse un accordo di programma con il Provveditorato agli studi e nel 1998 insieme al Sindacato scuola abbiamo lavorato attorno al problema del dimensionamento delle istituzioni scolastiche. Riguardo al mercato del lavoro sollevammo precocemente il problema, proponendo a CGIL e UIL di commissionare uno studio di fattibilità per un'agenzia provinciale per i servizi all'impiego e le politiche del lavoro. La ricerca fu svolta nel 1996 da Bruno Mazzoli (IRFED CISL Bergamo), ma non trovò nelle Associazioni imprenditoriali il riscontro che meritava. In seguito l'emanazione di una nuova normativa nazionale e regionale cambiò il quadro operativo; tuttavia l'impostazione di quel lavoro conserva una sua attualità, tanto è vero che la riproponemmo per un approfondimento da parte della Società di sviluppo locale.
Infine, insieme agli altri amici di Segreteria, abbiamo approfondito la tematica del ‘territorio’, che in qualche modo mi appare come lo ‘specifico’ della dimensione orizzontale del Sindacato, oggi. Un impegno che porta il Sindacato su un terreno immediatamente politico, anche se da una porta di accesso molto diversa da quella partitica o istituzionale. In particolare, a partire dalla esperienza dei ‘tavoli triangolari’ già avviata da Dioli come Segretario CISL, e continuata come Presidente della Provincia, è stata la problematica di un possibile ‘patto territoriale’, che ci ha occupato a fondo - allora era un tema relativamente nuovo per il nord Italia. C’era il terreno di gioco della Legge 102 (Legge Valtellina) che si prestava per una gestione concertata dello sviluppo locale. C’era l’ipotesi della Società di Sviluppo locale, come concreta occasione istituzionale da costruire, per avere uno strumento efficace di realizzazione delle intese tra parti sociali e istituzioni. Abbiamo fatto decine di incontri, organizzato alcuni convegni (anche con l’aiuto dell’Ufficio Studi retto dall’infaticabile Valerio Dalle Grave).
Ma tutto è stato sinora molto più difficile del previsto: la società locale (e l’apparato politico che essa esprime) sono frammentati in gruppi e parrocchie assai poco comunicanti e quasi per nulla cooperativi, e non sembrano perciò sinora voler assumere un orizzonte di ‘sistema’ locale (sociale, produttivo, culturale), né una logica di progettazione innovativa per muoversi in un mondo complesso, o le responsabilità di un governo della modernizzazione. Così si sono perse e si perdono, in provincia, occasioni storiche.
Forse le soddisfazioni maggiori le ho tratte dal lavoro formativo: dove il 'successo' non solo non è assicurato, ma per lo più non è neanche previsto. (evidentemente non si sfugge alle vocazioni, anche quando si crede di cambiare mestiere, nell’illusione di essere più efficaci). E’ un campo in cui c’è sempre molto da fare. Infatti anche il Sindacato è oggi una struttura complessa, che ha grandi difficoltà ad acquisire una consapevolezza diffusa delle nuove necessità, ad agire oltre la logica tradizionale, che è quella della tutela dei lavoratori ‘normali’ - una razza, questa, che, lentamente, sembra estinguersi. Ciononostante esso continua a crescere numericamente (e non solo!), malgrado (o secondo?) la profezia di Bruno Manghi (contenuta nel titolo di un suo libretto di metà degli anni ‘70: Declinare crescendo). Come dicevo, c’è dunque molto da fare, anche all’interno, sul modello organizzativo, sulla cultura sociale e politica di cui dotarsi, sulle prospettive e modalità d’azione efficaci per una nuova e diversa ‘tutela’ del mondo del lavoro, dei molti lavori.

Intervento Fassin al Convegno promosso da Valtellina nel Futuro
14 luglio 2012 “Autonomia dei Territori. Una lunga storia che continua” con Lorenzo DELLAI (presidente Provincia Autonoma di Trento)

“Rispetto a quanto ci ha raccontato Dellai, potremmo concludere che qui siamo all'anno zero. Certo in parte questo può essere vero, ma non del tutto. Ci sono in realtà tanti micro movimenti anche nella società locale, che attendono di essere valutati, compresi, collegati per produrre il cambiamento voluto. D'altra parte siamo sottoposti a un 'mutamento' (preferisco questo termine per indicare i 'determinismi' del presente) violento, addirittura intensificato nella crisi come più volte si è detto, una crisi epocale, senza precedenti, per quanto ne dicano gli economisti, che ora ci colpisce nella dimensione 'economica', mentre non abbiamo neanche sufficienti difese di carattere socio-culturale (e politico). Così essa può fare danni enormi, facendoci regredire ancor di più, oppure può presentarsi come una opportunità per cambiare, volontariamente, per guidare il cambiamento necessario come risposta a un mutamento che dovremmo rifiutarci di pensare inarrestabile.

C'è un problema, anzitutto, di metodo. Di metodo intellettuale per la precisione. Un problema di modo di pensare nostro e conseguentemente da diffondere nella società locale. Del resto siamo in una associazione culturale che ha qualche ambizione 'pedagogica’! Per uscire dal lamento o dalla disperazione dobbiamo abbandonare (non è facile) modalità di pensiero dualistiche per un verso, per l'altro lineari. Detto altrimenti una visione in bianco o nero, senza sfumature (e, in ultima analisi, senza prospettive), e/o una visione improntata a un percorso che ci si rappresenta lineare, da uno stato a un altro stato, senza deviazioni, senza scorciatoie, senza bivi inquietanti. Ma la realtà non è fatta così, e questa disposizione ci conduce solo a battere la testa contro il muro, oppure a lasciarci sedurre ancora una volta da chi ci promette “magnifiche sorti e progressive”.

Tra le cose che più mi sembra dovremmo approfondire c'è il buon uso della storia. A proposito di identità, si fa un grande spreco di riferimenti storici, e del resto viviamo in una provincia dove la 'storia', non tanto quella delle res gestae, ma quella di una minuta descrizione di eventi, della memorialistica di famiglia e paese, della ricostruzione puntigliosa dei 'fatti', ha avuto innumerevoli cultori. Ma poi, per insufficiente riflessione sul ‘senso’ delle vicende, abbiamo consentito la strumentalizzazione di alcuni spunti (ad esempio appunti ‘identitari’) per fini di corta gittata (vedi Lega). Mentre non ne abbiamo tratto una più severa lezione, che, ad esempio, è quella che divisi si perde, che solo l'unione intelligente fa (farebbe) la forza, ecc. Ma ovviamente si deve decidere prima di tutto cosa si vuole, e chi lo vuole...
In una visione come quella che mi pare si dovrebbe assumere, una visione veramente sistemica, all’altezza della complessità presente, tutto si tiene, ma non nella confusione, bensì nella distinzione, senza però separazioni. Con sensibilità, cioè, alle influenze e ai rimandi, ma in vista di qualche ricongiunzione, di qualche sintesi significativa che ci aiuti a capire il presente e a progettare il futuro. Questo è un aspetto del lavoro culturale che può e deve fare una associazione come Valtellina nel Futuro, aiutando il contesto sociale e politico nella necessaria riflessione.

La politica poi, come si è profilato anche qui, dovrà fare delle scelte, delle scelte coraggiose: qualche volta infatti si può e si deve forzare la storia. Può essere uno di questi casi quello di immaginare una difesa della 'Provincia' non fissata sui confini e sulla consistenza attuale, ma proiettata generosamente sulla dimensione 'alpina' che accomuna alcuni territori del nord Lombardia, i quali hanno avuto storie simili, hanno simili problemi, e stanno cercando di metterli in comune.

Vengo ai problemi connessi con la voce 'autonomia', fortemente lanciata in questa sede da Dellai. Essa si fonda – si dice – su un riconoscimento identitario, che qui da noi – è stato detto – è oggi alquanto problematico, anche se ha una sua storia. Oggi comunque non è certo il caso di scimmiottare la Lega, rivendicando qualcosa che abbiamo disperso nel tempo, anche se ne restano 'rovine e macerie'. Si tratta piuttosto di riprendere il filo della storia con spirito critico e non solo con nostalgia, per costruire (ri-costruire?) comunità in forme rinnovate, evitando di fare dell'identità un mito sia in senso positivo (un meraviglioso deposito di senso) sia in senso negativo (un carcere culturale premoderno) La 'costruzione' sagace e progettata di spirito comunitario (forse è meglio usare questa dizione) , che qualcuno chiama anche coesione sociale, ecc. è per l'appunto da intendere come una costruzione, una impresa volontaria, non il recupero di un pur prezioso relitto.
Anzi è nientemeno che la costruzione stessa di una democrazia che non può accontentarsi delle regole formali così care al pensiero 'liberale' (una testa un voto – poi chi pensa agli esclusi, e agli esclusi volontari dell’astensione?, ecc.), ma aspira a superare, in modi e forme da studiare, le false contrapposizioni (rappresentativa o diretta? assembleare o delegata? ecc.).
Per affermare una cittadinanza piena, e perciò complessa, pluralista e consensuale. E' dentro un simile processo che si dovrebbe installare, non senza momenti sperimentali, un assetto istituzionale, non frettolosamente imposto dall'alto, come si sta facendo, addirittura sotto l'assillo della pubblica spesa ovvero di una esigenza di risparmio di per sé inevitabile, ma che si pratica in modo totalmente sganciato da una lettura politica delle situazioni.

A questo punto viene a proposito un discorso sull'economia, in particolare sul cosiddetto 'modello di sviluppo'. Riguardo all'economia, sarebbe bene assumere, proprio nella crisi presente, una prospettiva radicale quale quella sostenuta da S. LATOUCHE, il quale ritiene l'economia, come la concepiamo (un campo separato, ben distinto dalla società, anzi egemone oggi su tutte le dimensioni culturali e sociali delle nazioni moderne, con un governo invisibile e forse acefalo mondializzato, che ci impone parametri di azione e intervento propri, regolati solo dalle ‘leggi’ del mercato) non altro che una filiazione, alquanto impazzita, delle società moderne , una dimensione 'inventata' (questo è il titolo della sua opera teoricamente più impegnata in materia: L'invenzione dell'economia).

Fino ad allora i problemi dei bisogni e delle risorse per la vita erano infatti intesi come una dimensione tutta interna alla vita della società, oggetto (senza alcuna obiezione) di preoccupazioni e interventi preminenti dello Stato e in genere della amministrazione pubblica.
A seguito di questa riconversione concettuale saremmo in condizione di fare alcune scelte coraggiose: ad esempio potremmo evitare di pensare a una 'ripresa' dell'economia fotocopia della fase precedente, più in generale di immaginare una crescita illimitata in un mondo finito. Allora si capirebbe che il 'mondo alpino' ha qualcosa di diverso da offrire, qualcosa da insegnare, malgrado le devastazioni fin qui perpetrate del suo patrimonio ambientale e sociale.

Perfino le rovine di cui si parlava potrebbero svolgere il ruolo di un monito, ben più leggibile che nelle pianure… La tematica giusta, comunque, è quella dei beni comuni, cui si è rapidamente accennato anche qui; una tematica che richiede altri approfondimenti, anche giuridici, per (ri) costituire una dimensione che non è né Stato né Mercato, ma espressione im-mediata della società. Di questa dimensione restano, proprio non a caso sulla montagna (anche per le condizioni difficili di esistenza che richiedevano grande prudenza e responsabilità collettiva ), inequivocabili tracce: dagli usi civici alla proprietà comunitaria degli alpeggi, da rituali di collaborazione nelle emergenze ambientali e sociali, al governo comunitario di risorse essenziali come l’acqua o la foresta.
Sondrio, 14 luglio 2012
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Rosario domani sera alle 20. Le esequie martedì.
Il nostro più vivo cordoglio.
a.f.
 

a.f.
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