Traforo dello Spluga, di A. Pandini

Del traforo dello Spluga si parla da più di un secolo. Negi anni 1950-‘60 gli si trovò addirittura un nome, “Il traforo del sole”. Si fecero studi più o meno seri di fattibilità: la galleria ferroviaria doveva partire da Chiavenna (333 m. slm) e arrivare a Thusis (723 m) nei Grigioni. Il consenso popolare era ben comprensibile: la Valchiavenna sarebbe finalmente uscita dal limbo commerciale e turistico nel quale l’avevano confinata i trafori del Frejus, del Sempione e soprattutto del primo Gottardo ferroviario inaugurato nel 1882. (Un  traforo, quello del Gottardo, tutto in territorio svizzero, ma al quale l’”Italietta”, come la si chiamò poi, aveva contribuito con 42 milioni di franchi, mentre la Svizzera e la Germania versarono ciascuna 20  milioni).

A Chiavenna l’entusiasmo della gente era commovente. Al Caffè Svizzero due esperti, un piccolo industriale e un geometra, vennero quasi alle mani perché in disaccordo sul luogo nel quale scaricare l’immenso materiale di scavo della galleria. Infuocate discussioni anche su dove costruire la stazione “italiana” del traforo: chi diceva a Bette, chi a Mese. Ma un successivo progetto fece partire la galleria addirittura da Colico.

In quegli anni lavoravo a Roma e telefonavo agli amici di Chiavenna: “Ma la Svizzera è  d’accordo? Come si divideranno fra i due Stati gli ingenti costi? E i nostri politici locali, ministri, senatori, deputati, si impegnano a fondo?”  Tutte positive le risposte. “Gli svizzeri sono d’accordo, due sindaci della  Bregaglia faranno parte del Comitato; ai finanziamenti dei due Stati si affiancheranno quelli del grandi Comuni interessati, Lecco, Como, Milano, Coira, ecc.;  i nostri onorevoli saranno i primi ad aiutarci, ce l’hanno promesso”. Essendo a Roma e avendo qualche aggancio professionale, telefonai all’ambasciata svizzera e il tono cambiò completamente: “Il traforo dello Spluga? È un vecchio tormentone, ma ormai nessuno ne parla più.  Domanderemo a Berna…”. E qualche giorno dopo: “Anche a Berna nulla risulta sullo Spluga; da parte italiana, finora almeno, nessun accenno…”. Temevo di aver capito. E infatti pian piano il traforo dello Spluga passò di moda, pur tornando talvolta a galla come il mostro di Loch Ness.

Dal 1967 al 1988 fui per 21 anni in Svizzera, a Ginevra, come giornalista corrispondente, e nel dicembre del 1967 assistetti all’apertura del traforo autostradale del San Bernardino, che univa Milano a Coira e a Zurigo. Prima, nel 1964, era stato aperto il traforo stradale del Gran San Bernardo fra la Valle d’Aosta e il Vallese svizzero; e nel 1965, dopo 8 anni di lavori, il traforo autostradale del Monte Bianco, fra la Valle d’Aosta e l’Alta Savoia: allora il più lungo del mondo. Intanto a Chiavenna si continuava a strologare sullo Spluga e a me toccava spesso il compito ingrato del pompiere: “I ministri italiani - spiegavo agli amici chiavennaschi - vengono a Ginevra per una riunione dell’ONU o sul disarmo e ripartono subito: talvolta uno di loro arriva fino a Berna, ma dello Spluga non parlano, l’argomento non li interessa, forse neppure lo conoscono…”

Per la verità un’eccezione ci fu, e di rilievo. Il senatore Tommaso Morlino, lucano, importante leader della DC paracadutato da Aldo Moro nel collegio di Lecco, fu il primo e anche l’ultimo importante uomo politico italiano a interessarsi del traforo dello Spluga e a salire a Berna per parlarne con un membro del governo svizzero. Egli illustrò l’interesse delle industrie di Lecco, del Comasco e della Brianza per una “direttissima”  attraverso lo Spluga che favorisse il loro sviluppo avvicinandole alle economie del centro e nord Europa. Ricevette molte diplomatiche strette di mano e nessuna promessa.

Con il traforo autostradale del San Bernardino la Confederazione aveva in effetti by-passato lo Spluga collegando Milano a Zurigo e alla Germania attraverso il Ticino e la Mesolcina; inoltre si stava costruendo il grande traforo del Gottardo che avrebbe aperto nel 1980 una grande via autostradale dalla pianura padana verso il Nord. (D’estate, specialmente quando la Lecco-Colico minaccia di andare in tilt per i noti problemi,  numerosi turisti  lombardi  arrivano a Madesimo o Campodolcino scegliendo l’autostrada Milano-Lugano-Bellinzona-Mesolcina-San Bernardino-Splugen).

Nella visione strategica svizzera il traforo del San Bernardino si propone anche di portare la grande massa dei turisti svizzero- tedeschi,  germanici, belgi, olandesi, ecc. verso il Ticino, la Sonnestube - la stanza del sole elvetica - dove trovano un’accoglienza latina, ispirata  però alla Gemütlichkeit tedesca. Il San Bernardino, a 1600 metri di altitudine, e le autostrade di accesso, sono costate alla Confederazione somme ingenti. Un traforo sommitale dello Spluga, oppure un traforo verso la Mesolcina (non importa se da Gordona a Soazza o da Campodolcino a Mesocco), innestandosi sull’autostrada Lugano - Zurigo finirebbe col deviare una parte del flusso turistico dal Settentrione verso la Valchiavenna e il lago di Como.  Si capisce bene che per l’opinione svizzera, e in particolare ticinese, l’operazione potrebbe somigliare a un volontario autogol.

Adesso, nei limiti del possibile, non dovremmo ricadere nei vecchi errori. A mio parere sarebbe Inutile e costoso muoversi senza prima aver cercato, attraverso il governo di Roma, le indispensabili intese con Berna; e anche con Coira, tenendo presente che ogni cantone svizzero è una repubblica con precisi diritti e con grande peso nelle decisioni comuni. Se i testi che ho letto sono completi, né il sindaco di Chiavenna né il comitato per il tunnel Campodolcino-Mesolcina hanno dato conto, nei loro comunicati, di contatti approfonditi e positivi con le autorità elvetiche. È evidente che gli studi di fattibilità diventano indispensabili se e quando la controparte è d’accordo con le opere proposte. Un’intesa anche di massima fra i due Paesi dovrebbe indicare almeno il luogo del traforo, la ripartizione dei suoi costi, gli impegni reciproci per le nuove strade di accesso, la sicurezza del tunnel. Quindi senza un chiaro accordo preliminare, sottoscritto dalle due parti, i suddetti studi di fattibilità lasciano il tempo (e la situazione) che trovano e rischiano di tradursi soltanto in una notevole perdita di denaro pubblico. Ancora una volta il primato deve essere quello della politica, in questo caso a livello internazionale. Voglio dire che l’accordo svizzero potrebbe anche dipendere dalle posizioni italiane su alcune questioni cruciali ora dibattute fra la Confederazione e l’Unione europea.

Quello delle strade d’accesso all’eventuale tunnel mi sembra però un problema da affrontare subito. Direi  anzi che la sua soluzione sia ancor più urgente di quella dei trafori. Perché col traforo si avrebbe una strada di valico aperta tutto l’anno, obiettivo primo dell’opera, ma anche un afflusso considerevole di suoi utenti. E per restare al versante sud, quello italiano, è chiaro a tutti che la SS 36, una delle più sovraccariche d’Italia, non possa, nelle condizioni attuali, sostenere un nuovo considerevole aumento del traffico.

La Valle Spluga è ancora più stretta della parallela Mesolcina. Quindi, prima di pensare di far arrivare a Campodolcino o addirittura a Montespluga una superstrada, suggerirei di visitare la Mesolcina per constatare come l’autostrada del San Bernardino abbia sconciato la valle. (Remo Fasani, memoria critica del Grigioni italiano, l’aveva bollata con versi di fuoco: “Ci avete preso il treno, le cascate / ci avete dato  assurda un’autostrada / tetre officine […..] Maledetti!”).

Ma c’è anche l’esempio contrario. Per impedire quello scempio, tutelando l’ambiente, il paesaggio e nel contempo la massima sicurezza, la Valle d’Aosta pretese che l’autostrada verso il Monte Bianco  corrésse, nel suo settore finale, in dieci gallerie a doppio fornice per uno sviluppo sotterraneo di circa 24 km. I lavori sono durati 8 anni, ma oggi abbiamo in Italia un’opera-guida che nessuno può ignorare.

A meno che la “febbre dei trafori” sia stata riaccesa, in Valchiavenna, soltanto nel tentativo di far dimenticare la tuttora vivissima “febbre dell’ospedale”, non certo sopita dal non molto tranquillizzante documento dei Sindaci. In questo caso la “problematica del Passo Spluga”, come scrive Della Bitta, si dovrebbe dunque intendere come “problematica del chiodo scaccia chiodo”? Speriamo non sia così.

                                                                                                                                Attilio Pandini

Angolo delle idee