I RACCONTI DI CRISTINA: LA CASA DI SONDRIO

Non è solo un racconto sull’edificio storico che ospitò Garibaldi ma un rivivere modo di essere d’un tempo, almeno per chi quei tempi ha vissuto. I giovani d’oggi guardino a queste cose non come un mondo lontano, magari della fantasia, ma pensand

CRONOLOGIA

1810 circa Costruzione della casa

1859 Sosta di Garibaldi a Sondrio - Prima lapide

1912 Ristrutturazione effettuata dal nonno Luigi

1915 Guerra – morte del nonno Luigi – Seconda lapide

1934 Matrimonio di mio padre Guiscardo

1946 Nasco io

1946 Divisione della casa fra i tre fratelli

1968 Morte dello zio Diego

2000 Morte di mio papà (Guiscardo)

La casa e un po’ di storia

Non si può rappresentare la realtà in modo oggettivo. Anche il pittore Magritte, dopo aver

dipinto una bellissima pipa in tutti i suoi particolari si è affrettato a scriverci sotto: “Ceci n’est pas une pipe”. Era infatti solo la riproduzione della pipa, non si poteva metterci dentro il tabacco e accenderla. Ho fatto questa premessa non certo per competere con illustri semiologi o filosofi del linguaggio, ma semplicemente perché quanto dirò sulla casa di Sondrio è solo ed esclusivamente 2 quello che vedo, ho visto ed ho sentito io, con gli occhi poco obiettivi della mia memoria, con il mio astigmatismo, la mia pelle, le mie paure, la mia fantasia, il mio cuore. Io nella casa di Sondrio ci sono nata; cioè sono nata nella Casa di Salute, diventata in seguito caserma della guardia di finanza, ma poi non mi sono mai mossa dalla casa di via Gesù finché non sono andata via a studiare e mi sono sposata. Il papà e la mamma però hanno continuato a viverci, per cui la casa di Sondrio è sempre stata come una nave saldamente ancorata al suo porto.Non ho avuto un rapporto facile con la casa di Sondrio. Non è un appartamento anonimo in un condominio, né una linda casetta con giardino, no, è una casa impegnativa. E’ una casa che non può appartenere a una persona in particolare. Ci si vive, ci si passa, ma non la si possiede. Ha una storia. E’ molto pericoloso affezionarcisi. Adesso è vecchia e malata. Un giorno morirà, così come sono morte le altre case nobiliari di piazza Quadrivio, diventate moderni templi in onore del Dio denaro, ma noi ne serberemo il ricordo come di una persona cara.

Può mettere soggezione come una vecchia signora. Come d’altra parte mi mettevano

soggezione le vecchie signore di Sondrio che venivano ogni tanto in visita quando ero bambina.Visite temutissime perché dovevo sempre interrompere i miei giochi, salutarle distintamente, stare seduta tutta rigida per un po’ a sentire discorsi noiosi e sottostare agli sguardi pettegoli e indagatori delle buone cugine zitelle sempre un po’ baffute.

La casa di Sondrio è grande. Si trova nella vecchia Sondrio fra altre case anche più vecchie. Consta di tre blocchi ben distinti, ma che fino a una trentina di anni fa comunicavano tra di loro mediante passaggi e corridoi. Il corpo centrale ha una bella facciata neoclassica che dà sulla via Gesù. I piani sono due, oltre al solaio naturalmente. Sotto c’è una cantina, enorme, ideale per un enologo, in cui una volta si teneva il nostro vino in grandi botti di rovere. C’era anche un cantinino ancora più profondo, una specie di cripta, dove si conservavano vini specialissimi. Andare in cantina era un rito, grosse chiavi, candela, imbuto e fiasco. Sul lato est del corpo centrale c’è un'altra ala, che non dà sulla strada ma solo sul giardino e sul cortile. Ospitava al primo piano il salone decorato con papiers peints con disegni patriottici*, uno studio e la famosa camera di Garibaldi. Al secondo piano di questa ala ci sono una sala, una cucina, una grande camera da letto e

un bagno. Quando dopo la guerra ci furono le divisioni fra i tre fratelli, Guiscardo, Giulio e Diego, questa parte andò allo zio Diego, perché lui e la zia Picci ci venivano d’estate, era la più fresca, e la più rappresentativa, con scala interna decorata da quadri di antenati, il salone e il giardino-orto. ( La sorella Maria si era sposata ed avrà avuto probabilmente una dote sotto altra forma. Non so.). E’ stata anche la parte più sfortunata. Il primo sfregio lo ricevette quando la zia Picci, che aveva deciso di dormire nella camera di Garibaldi col suo letto a baldacchino e i suoi papiers peints * Fino al 1861 la Valtellina faceva parte del Lombardo-Veneto, occupato dagli austriaci. Il salone era decorato con

disegni allegorici, fra i quali c’era anche un tricolore.

3 d’epoca, decise di far mettere un bidet nella, chiamiamola così, anticamera, bella stanza e passaggio obbligato per recarsi appunto in camera da letto. Un bidet in mezzo alla stanza. Ma la zia Picci dava grande importanza all’igiene, come gli antichi romani. Il secondo sfregio ancora più grave lo subì il salone, quando, dopo la morte dello zio Diego

quella parte di casa fu ereditata da un cugino che la vendette, non prima di aver staccato e venduto i papiers peints con decorazioni patriottiche e dato al rigattiere altri mobili di casa senza nemmeno chiederci se noi ne volevamo comprare qualcuno. Adesso tutta quella parte è abbandonata. Non oso immaginarne lo stato all’interno. Faccio invece un sogno ricorrente in cui vedo sia la casa della Maria Valenti, sia la casa degli zii Picci e Diego ancora abitate. Non riesco però a parlare con queste persone, cambiano sempre, né riesco a capire se siano brave o cattive. Ho sempre tuttavia un certo timore che brave non siano. Certe volte il sogno mi rimaneva così impresso che quando andavo a Sondrio a trovare la mamma mi meraviglio di vedere le case vuote. In seguito a quella vendita la porta che dalla nostra anticamera portava appunto alla casa degli zii Diego e Picci fu chiusa e trasformata in armadio a muro. Però sulla facciata rimane la lapide che testimonia della sosta garibaldina a Sondrio. C’è sempre qualche turista occasionale che si ferma a leggerla. Io mi vergogno non poco. L’altra parte di casa, nascosta anch’essa dalla strada, sui lati ovest e nord, preesisteva al corpo centrale e faceva probabilmente parte della Sondrio medievale, infatti si può ancora vedere il lato nord su vicolo degli Orti, con il muro in pietra a vista e antichissimo portone.

Così uniti i tre blocchi formano una grande U con il lato aperto ad est sul giardino, mentre la parte circoscritta, l’interno della U, è il cortile, con ingresso da Vicolo degli Orti. Fra l’altro anche il nome via Gesù è una storpiatura di Gesö, che voleva appunto dire orti, gesuoli. La parte centrale era destinata alla residenza della famiglia, la parte più vecchia, di Vicolo degli Orti, era destinata ai servizi, alla servitù, la parte degli zii era la residenza estiva e la zona di rappresentanza. Non male. Probabilmente i bisnonni e loro antenati erano benestanti, tanto che qualcuno si sentì in dovere di regalare il terreno antistante la casa a quella che poi è diventata l’Enologica Valtellinese ed ora è stata trasformata in un palazzo della Regione. Ma una volta Sondrio non era molto importante, ci si veniva soprattutto in campagna, quindi il terreno valeva poco. Un bisnonno era stato anche senatore del regno d’Italia, l’ho scoperto dall’etichetta di un vecchio baule. Nel 1870

aveva combattuto per liberare Roma, ricordate la famosa breccia di Porta Pia? Coincidenza curiosa, l’altro mio bisnonno di parte materna, Ulisse Balzani, aveva combattuto anche lui a Porta Pia, ma dalla parte opposta, cioè per il papa. Se si fossero ammazzati reciprocamente io non sarei qui a scrivere. Ma torniamo ai Guicciardi. Il nonno Luigi era prefetto e girava sempre. Nel 1912 aveva fatto fare grandi lavori e messo l’impianto di riscaldamento centrale, proprio per garantirsi un soggiorno

confortevole in previsione della pensione. Quelli furono gli ultimi lavori di ristrutturazione fatti in Via Gesù. Poi ci fu la prima guerra mondiale, la morte eroica del nonno Luigi, con altra lapide sulla casa. La diaspora dei figli, la seconda guerra mondiale, il ritorno a Sondrio del papà, la divisione della casa fra i tre figli maschi. Come ho detto allo zio Diego è andata la parte più rappresentativa, a noi il primo piano e allo zio Giulio il secondo piano. Le nostre parti comprendevano sia Via Gesù che Vicolo degli Orti.Gaudenzio Luigi Diego Maria Giulio Guiscardo (sposato a Gabriella Balzani) Fabio Enrico Giuseppe Corrado Cristina

Si ricominciava tutto da capo. Lo zio Diego aveva abbandonato la marina nel ’43, quando ci fu l’armistizio, in condizioni di salute precarie a causa dei lunghi soggiorni sui sottomarini, ormai era Genova la sua residenza. Lo zio Giulio lavorava in banca a Milano. Durante la prima guerra un proiettile gli aveva trapassato il collo, così non aveva dovuto combattere nella seconda. 12 luglio 1920. Cerimonia per scoprire lalapide al nonno Luigi. Sono presenti i pompieri, tutti volontari, in alta uniforme. Il papà aveva lasciato l’acciaieria Cogne di Aosta nel ’44, pensando di poter vivere decorosamente fino alla fine della guerra con la buona liquidazione ricevuta, ma dopo aver comprato una credenza a Bologna, un chilo di carne e un chilo di burro al mercato nero si era ritrovato con un pugno di mosche e cinque bambini da sfamare. Dopo aver accettato qualche lavoretto aveva trovato un posto come ingegnere della provincia. A lui piaceva farsi chiamare ingegnere capo, ma di ingegnere c’era solo lui. Restava la casa. Il nostro appartamento era grande ma un po’ scomodo. Immaginiamo una grande S.Ad una estremità della esse il bagno, la camera mia e di Corrado, la camera dei miei, il salotto, la sala da pranzo, l’anticamera, la cucina. Metà della esse. Dalla cucina si esce per mezzo di un terrazzo, come quello delle case di ringhiera, e si va nella parte Vicolo degli Orti. Qui c’erano la stanza del nonno, bagno e antibagno, camera di Fabio, camera di Enrico e Giuseppe, l’Ultima Camera dei miei

Camera, una specie di ripostiglio, poi riempita anche quella con i sassi della collezione del papà. Il nome è un po’ dannunziano, ma era proprio la stanza all’altro capo della S. Nell’Ultima Camera c’era una botola, da cui si poteva scendere nel sottostante garage, così chiamato dai tempi in cui le automobili non esistevano, alla francese. Corrado una volta si era fatto molto male a un dito cercando di aprire o chiudere la botola.

Nella parte di Vicolo degli Orti non c’era riscaldamento, ma nessuno si è mai lamentato.

Però il papà aveva fatto mettere un citofono, dalla camera di Fabio si poteva telefonare in camera dei miei! Era il gioco preferito prima dei miei fratelli poi di tutti i bambini ospiti, poi dei nipotini. Il papà aveva di queste Idee Brillanti e molta fiducia nelle telecomunicazioni. Fece infatti installare il telefono nei primi anni cinquanta, quando i numeri erano solo tre e si doveva passare per la signorina del centralino. I miei fratelli avevano una gran libertà, non dovevano passare per la camera dei miei quando tornavano a casa la sera.

Il nonno Corrado

Dopo la morte della nonna Bice, nel ’51, venne a stare da noi il nonno Corrado. Gli fu

sistemata la stanza, così come il bagnetto vicino. Lui però una stufa l’aveva poveraccio, perché gli inverni a Sondrio erano rigidi e quella stanza non prendeva il sole per mesi, anzi, quando tornava il sole ai primi di febbraio, era una festa, così come quando arrivavano le prime rondini e cominciavano a fare il nido, proprio vicino alla camera del nonno. Il nonno ci stava bene però. La mattina, quando si lavava, a torso nudo anche d’inverno, si batteva il petto e diceva ”Il freddo è un’opinione”. Ascoltava la radio sempre, tutto il giorno. L’unico programma che proprio non gli piaceva era “Ballate con Noi”, alle due e mezzo del pomeriggio. Allora veniva di qua, nella parte di Via Gesù, dove mio papà faceva sempre un pisolino, prima di tornare in ufficio, e gli chiedeva a voce alta “Dormi, Guiscardo?” Il papà si arrabbiava un sacco. Bisogna dire che il sonnellino di mio

papà era sacro e lo è stato finché è vissuto. Si metteva infatti su una poltrona in salotto, bloccando così tutta la casa, che è a ferro di cavallo, per una buona mezz’ora. Nessuno poteva passare o fare il benché minimo rumore.

E’ da mio nonno che abbiamo imparato a comprare la Settimana Enigmistica il venerdì.

Infatti faceva le parole crociate più difficili, mentre io facevo i giochini più facili, come “Aguzzate la Vista”, “Che cosa apparirà” oppure le “Parole Crociate Facilitate”. Fumava molto il nonno, la pipa. Sembra che mischiasse al tabacco delle foglie di noci che portava dalla campagna. C’era sempre una nebbiolina azzurrognola che aleggiava nella stanza. Mai sentito tossire. Aiutava anche i miei fratelli a fare i compiti. Sapeva greco e latino, ricordava la Divina Commedia a memoria ed essendo ingegnere (progettista dell’imponente edificio che ospita il giornale – ndr) era anche bravo in matematica. Era arrivato a Sondrio nel ’27, perché c’era stata la grande alluvione e lui era ingegnere del genio civile. A Roma, dove era nato, aveva frequentato la stessa scuola di papa Pacelli. Questo lo posso testimoniare anch’io, perché non so come mai aveva ancora la lista degli iscritti alla sua scuola e io mi divertivo a leggerla. Chissà quante altre persone importanti c’erano su quella lista. Andavo spesso a trovarlo in camera sua, giocherellavo con una statuetta di Mercurio in bronzo e un bustino in marmo di Napoleone che si trovavano sulla sua scrivania. Prendevo spesso in mano un libro con le poesie di Carducci che sembravano scritte a mano su una carta finissima, molto gradevole al tatto. In casa nostra erano tutti Carducciani, Pascoli non piaceva. Non so perché.Oppure leggevo e coloravo un libro con qualche parola inglese. C’era scritto Yes sulla copertina. E’ stato lui a insegnarmi le prime parole inglesi. Mi chiamava “electric child”. Aveva i capelli corti a spazzola e si puliva spesso la penna in testa e io mi divertivo molto a grattargli quelle macchie blu. Appioppava a tutti dei nomignoli divertenti. L’infermiera del dottor Carbonera, che veniva ogni tanto a fargli delle punture, era “la Vespa”. Scriveva anche divertenti poesie illustrate da buffe caricature, le Zirudelle, per celebrare fatti memorabili. Mi sembra di ricordarne una che raccontava della caduta di un fulmine in camera sua e il suo ritratto con tutti i capelli che gli si erano rizzati in testa appunto come saette. Non sembrava triste il nonno, ma forse un po’ lo era, anche se con noi era sempre buono e gentile.

Il cibo

Nelle stanze dei fratelli c’erano anche i libri rossi (Enciclopedia Utet dei Ragazzi) e i libri

blu (Mondadori). I libri blu erano dieci, ma non mi piacevano molto. I libri rossi erano solo sei.Guardavo sempre l’indice e dopo “Gli Albori del Regime” trovavo le “Fiabe da tutto il mondo” e le leggevo con avidità. Che belle! Come ho detto eravamo poveri. Ma erano tutti poveri. Lo sono stati tutti ancora per qualche anno. Eravamo tutti ambientalisti. “Non si butta via niente” era il motto di casa. “Si rimagliano calze” era scritto nelle piccole vetrine di modeste mercerie. Si facevano rivoltare vestiti e paltò. I giornali avevano più vite dei gatti: si leggevano con avidità, si usavano come carta igienica, come carta per imballaggio, per pulire vetri e vetrine. Faceva freddo d’inverno, per cui ci si lavava il

minimo indispensabile, risparmiando così acqua calda. C’erano molti spifferi che si cercava di bloccare con eleganti serpentoni di velluto o damasco ai piedi delle finestre.

Non c’erano i sacchetti di plastica, a far la spesa si andava con una sporta e con la bottiglia del latte vuota. I negozi chiudevano a mezzogiorno, ma dato che mancava sempre qualcosa all’ultimo momento, si poteva entrare anche dal retro dove si vedevano cose strane, come una macchina imbottigliatrice per l’olio che avrebbe dovuto essere di oliva ma aveva piuttosto un odore di olio di macchina. Chissà cos’avrebbero fatto i Nas se fossero entrati in quei retrobottega.I biscotti, la pasta e il riso si compravano sciolti, e spesso sapevano di naftalina. Ma chi ha detto che si mangiava meglio una volta? Ricordo delle grandi schifezze.Ogni tanto c’erano delle mode passeggere, come il fungo cinese. Che cos’era mai il fungo cinese? Per quel che ne so io avrebbe potuto essere un pre-baccello da cui avrebbero potuto nascere degli ultracorpi, invece era una specie di gelatina che si teneva in una marmitta per ricavarne una bevanda. Il nome certo era bello. Poi di colpo non se ne parlò più. Avrà raggiunto il suo luogo d’origine extra-terrestre. Ne sono certa. A proposito di schifezze. Il macellaio Del Zoppo, che litigava sempre col papà, aveva il negozio e chissà cos’altro in Vicolo degli Orti. Vendeva carne che talvolta puzzava e soprattutto d’estate impuzzolentiva tutta la zona circostante. Certe volte il tanfo era insopportabile. Ricordo però che ci trovavo spesso i vigili tutti sorridenti a comprare la carne. Noi ci andavamo ogni tanto perché era così vicino. Non dimentichiamo che non avevamo ancora il frigorifero e non si potevano fare scorte. L’avremmo comprato nel ’58, dopo aver venduto il pianoforte, vista la mia mancanza di attitudine allo studio della musica.

La corte (il cortile)

Non c’erano i sacchetti per la spazzatura. Il pattume noi lo chiamavamo “rusco”. Il rusco lo si buttava giù da un buco che si trova nello sgabuzzino fuori dalla cucina. Il rusco così

buttato finiva sotto, in uno stanzino che dava sul cortile. Venivano poi gli spazzini, sì proprio gli spazzini, il “politically correct” era ancora di là da venire, con un carretto e con scope e pale, ma senza guanti, raccoglievano il rusco. Ogni tanto si vedevano delle pantegane circolare in cortile. A me non piaceva andare in cortile. Questo succedeva quando ero molto piccola. Poi probabilmente si è trovato un sistema più igienico. Non è sempre stato così inospitale il cortile. C’è stato un periodo in cui era tenuto abbastanza bene, il torchio, casotto che una volta ospitava un vero torchio, non era semicrollato come oggi, e la scala di Vicolo degli Orti era praticabile. Forse era la Maria Valenti, la vecchia inquilina degli zii Giulî, a tenerla pulita. In cortile tenevamo il Caprettino, che per tanti anni in primavera ci veniva portato in dono da un cantoniere della Val Masino. Ce lo portavano vivo, noi gli davamo il latte col biberon, lo portavamo a spasso come un cagnolino, gli davamo un nome e lui rispondeva, ci affezionavamo come può un bambino affezionarsi a un cucciolo, ma un giorno tornando da scuola, tragedia, non lo trovavo più. Pianti e lacrime e disperazione. Era Pasqua.In cortile si doveva anche andare a prendere il carbone utilizzando un secchio particolare, a tronco di cono, parecchio alto. Non piaceva a nessuno andare a prendere il carbone, io per fortuna ero esentata perché troppo piccola. La caldaia era in cucina. Poi ne fu messa una a nafta.Non era una casa per bambini la casa di via Gesù. Non avevamo giocattoli se non il meccano che io non sapevo fare.

Il mio passatempo era leggere o stare in cucina a ciondolare e guardare la mamma che lavorava. Quando faceva la pasta, sollevava la tela cerata dal tavolo e lavorava sul legno nudo, poi per farmi star buona mi dava un pezzettino di pasta che io appunto pasticciavo. Stavo molto in cucina, che era comunque la stanza più calda e accogliente della casa.

Ma se dovevo andare a far la pipì quando era buio e dovevo attraversare tutta la casa lo facevo di corsa, saltellando e canterellando perché avevo paura. E sì che in casa nostra non c’erano fantasmi. Non so come mai. I rumori sospetti che si sentivano erano spesso provocati da topolini. Io avevo il terrore che di notte qualche topolino si arrampicasse sul mio letto. Naturalmente non è mai successo.

La nobiltài

Io non andavo fuori a giocare. Non dimentichiamoci che eravamo poveri ma anche nobili.

Un fastidio tremendo. Cosa voleva dire?

Che non potevo giocare alle biglie ai giardinetti con gli altri bambini. Che non potevo giocare in un cortile pieno di bambini come tante mie amiche che abitavano in case più popolari.

Che all’oratorio non ci potevo andare perché ero anche una femmina e una volta Don Borghino mi ha persino minacciato con il bastone. Chissà perché.

Che i bambini di Scarpatetti* che andavano a spasso col cerchio mi sembravano marziani e mi prendevano un po’ in giro quando passavano.

Che non parlavo dialetto. Che non potevo avere oggetti bellissimi ma kitsch come le bocce con la neve che scende se si agitano o quelle magnifiche statuette che cambiano colore quando cambia il tempo. Per non parlare della bambola sul letto.

Che dovevamo mangiare tutto quel che ci veniva dato, senza avanzare niente, e saper mangiare bene, perché ogni tanto venivano parenti dalla città a farci l’esame. Promossi o no ci portavano un po’ di vestiti usati, solo le etichette non erano lise o ristrette, Brigatti, Dolomite, Via Montenapoleone. Che una volta fui mandata fuori dalla palestra durante l’ora di ginnastica perché chiacchieravo un po’, proprio mentre passava la preside che mi chiese il nome e disse: “Vergogna, una Guicciardi non può comportarsi così, tua nonna sì che era una vera signora!”. Otto in condotta quel trimestre.

Che ogni tanto vedendo per la strada personaggi un po’ eccentrici e anacronistici le mie amiche ridacchiavano e io mi vergognavo perché erano miei distinti parenti e dovevo far finta di non conoscerli. Almeno una o due volte all’anno dovevo anche assolvere il precetto delle visite. Andare a trovare la zia Maria Longoni, che era anche la mia madrina e mi regalava sempre un libro per la befana. La zia Maria aveva sempre l’aria triste perché aveva perso due figli in guerra, uno in marina, l’altro disperso in Russia (per l’esattezza i due figli, splendidi ragazzi dice chi li conosceva, volontari in guerra morirono entrambi, quello in aeronautica abbattuto, quello in marina affondato: il terzo fratello non ha avuto discendenti come la sorella Fina, pittrice, e così si è estinta una delle principali storiche famiglie di Sondrio anche se il ricordo vive nella Fondazione Longoni – ndr) e sembra che sperasse ancora di rivederlo. La figlia era una pittrice e aveva un bellissimo studio, con vista sui vigneti, molto più luminoso del resto della loro casa che mi sembrava tetra. Ma c’era una cucina enorme, pulitissima. Non ci andavo volentieri perché avevano un cane che puzzava parecchio e continuava ad annusarmi.

Che mia mamma aveva paura dei comunisti, che ci portassero via la casa.

Che avevamo una casa grande, ma freddissima d’inverno e con un bagno e una cucina che non erano belli. Il bagno puzzava sempre un po’ e la cucina era molto difficile da pulire bene, non come quelle moderne, tutte piastrellate e lucide. L’unico aiuto che aveva la mamma era una donna a ore di Albosaggia, carissima, la Gisella, sorda come una campana. Sapeva un po’ di stalla e passava il suo tempo a lavare i piatti, a passare la cera e lucidare i pavimenti di legno spaccando non poche cose, lavare i piatti di nuovo, andare in solaio a stendere e ritirare i panni lavati. Eravamo in otto, vuol dire sedici pasti caldi al giorno da preparare.Che certe volte la zia Picci e qualche sua amica snob parlavano francese davanti a me per non farmi capire quello che dicevano.

Che non c’erano bambini della mia età fra il parentado.

Che una ragazza non avrebbe mai, ma mai, potuto restare incinta prima del matrimonio. La pena sarebbe stato il disonore e il pubblico ludibrio per tutta la famiglia. Naturalmente c’erano anche alcuni vantaggi. Infatti potevo sempre contare sull’aiuto di qualcuno in casa per fare i compiti. Anche se le “ricerche” non erano ancora di moda potevo sempre trovare materiale interessante nei libri di casa. Vivevo di rendita a scuola perché i miei parlavano e

raccontavano molto quindi le lezioni di storia e geografia erano molto “déjà entendu” e “déjà vu” . Spesso mi facevo dettare i temi dalla mamma all’ultimo momento, la sera, prima di andare a letto. Quanto alla storia locale bastava che chiedessi al papà e facevo delle bellissime figure. A carnevale si trovava sempre qualche vecchio abito, drappo, od uniforme per andare in maschera senza comprare un costume. Se si viaggiava c’era sempre un parente da qualche parte disposto ad offrirti ospitalità o anche solo un pasto. Non ho mai capito comunque come si potesse fare della nobiltà una ragione di vita. L’ho

sempre considerato un fatto piuttosto folkloristico. Fin da piccola capivo che noi non ne avremmo tratto alcun vantaggio, era anzi un vincolo, una costrizione, un peso morale.

Qualche anno fa un lontano cugino con grande fantasia ha pensato di radunare tutti i

Guicciardi. Persone che non si conoscevano o quasi e avevano in comune solo il nome e al dito la chevalière con lo stemma. Ha fatto anche un video in cui ognuno si presenta, elencando titoli e successi. Anche i più giovani. Patetico, neanche fosse stato un corso per manager emergenti o un corso di autostima, come quelli che fanno gli aiutanti di Berlusconi. Il fatto è che abbiamo mangiato pane e retorica da sempre e io da quando ho cominciato a capire qualcosa lotto con tutte le mie forze per scrollarmi di dosso i resti di questa mentalità, di cui i miei erano vittime assolutamente innocenti.

Gli anni d’oro

Ma torniamo alla casa e ai suoi anni d’oro. Quando Sondrio era una cittadina piccola piccola col senso della comunità e, perché no, della patria, in senso rispettoso, non

retorico, il 4 novembre e in occasione di qualche altra ricorrenza si esponeva la bandiera, senza più lo stemma sabaudo. La si infilava nell’apposito portabandiera sul balconcino di Via Gesù. Il papà ci teneva molto. Era un omaggio al padre perso in guerra quando lui era un bambino. Un’occasione più festosa era il Corpus Domini, un giovedì di giugno sempre soleggiato, quando si svolgeva per le vie di Sondrio una bella processione. Io ci andavo sempre e con altre bambine spargevamo petali di rosa lungo la strada. Ero molto fiera, passando davanti a casa, di vedere le finestre spalancate da cui pendevano bei drappi di velluto o damasco, per onorare il sacro passaggio. Quando si è interrotta questa tradizione?

Gli Inquilini

Non ho ancora parlato nemmeno degli inquilini. Gli zii Giulî, risiedendo a Milano, avevano

affittato parte del loro appartamento di Via Gesù alla famiglia Caslini, mobilieri di Seregno. Il Signor Caslini, sempre allegro e gioviale, aveva infatti tutte le dita mozze. Normale, dato che era falegname, ma mi faceva lo stesso un po’ effetto.

La parte di Vicolo degli Orti, la parte “casa di ringhiera”, invece era affittata alla Maria

Valenti. Ora io non credo molto ai santi, mi spaventano con la loro perfezione e mania di

autolesionismo, per non parlare di santi trafficoni o guerrieri. Ma la Maria Valenti era proprio una santa. Ti faceva star bene solo a guardarla.Piccolina, magra, sempre sorridente, con i capelli candidi raccolti in una piccola crocchia sulla nuca era stata aiuto-cuoca all’asilo, stra-amata da tutti i bambini. Non veniva certo in mente di chiamarla zitella anche se non era sposata. Mi piaceva andare da lei a chiedere un bicchiere di aceto

o una tazzina di zucchero quando noi rimanevamo senza proprio a mezzogiorno, o la domenica. La sua povera tavola era sempre apparecchiata perfettamente e sul fornello c’era sempre un pentolino col minestrone. Il suo balcone, col gabinetto in fondo, era tutto pieno di tolle e barattoli di conserve varie con i gerani più lussureggianti che abbia mai visto. Mi sembra che ci fosse anche una statuetta della Madonna. Non credo avesse il bagno, ma tutto in lei e in casa sua dava un idea di lindo e pulito, quando Mastro Lindo non c’era proprio. In chiesa cantava a squarciagola, felice anche se un po’ stonata. Solo una volta l’abbiamo vista arrabbiata, quando sentì bestemmiare degli operai grandi e grossi. Credo che li abbia sculacciati di santa ragione, come fossero dei bambini. Ricordo che appena sposata una sera, dopo aver saputo che abitavamo vicino alla Svizzera, mi fece vedere una scatolina di metallo e mi chiese se potevo comprargliene una. Era tabacco da naso, che lei trovava efficace contro il raffreddore. Io non avevo mai visto il tabacco da naso. E’ morta così come ha vissuto, all’improvviso, senza un lamento, fra le braccia di mia mamma e di mia cognata Andreina. Con lei ha cominciato a morire, lentamente, ma inesorabilmente, la nostra casa di Sondrio. E qui mi fermo, perché non sto più parlando di ricordi ma di una ferita ancora aperta.

Da una nota scritta da mio papà (Guiscardo G.) sulla famiglia Guicciardi per una ricerca di mio figlio Riccardo il 14 ottobre 1982:

“Valtellinese, di antica nobiltà del Sacro Romano Impero: nello stemma c’è infatti un’aquila

nera in campo d’oro. Il motto è: “Succumbat Virtuti Fraus” parole degne di tempi ben iversi dai nostri. Le prime notizie certe che si hanno risalgono ad un “Guicciardo” vissuto in Ponte Valtellina intorno al 1350. A Ponte, Tresivio e Sondrio erano numerose le case antiche dei Guicciardi. La più recente è la nostra, del 1810 circa.Dal ceppo originario della famiglia nacquero ben presto diversi rami: quasi tutte le persone – parliamo dei maschi – si occuparono della cosa pubblica, con probità e capacità. Diverse persone sono ricordate in libri, pubblicazioni, lapidi, ecc., in quanto si distinsero in modo particolare.

Un “Andrea” fu rettore dell’Università di Padova nel 1500. Un “Capitano Giovanni”

comandò le milizie cattoliche nella rivoluzione che il Cantù definì “il Sacro Macello” – dei

cattolici contro i riformati, cioè del partito valtellinese, appoggiato dalla Spagna che dominava a Milano, contro i protestanti grigioni che occupavano la Valtellina: sotto il pretesto religioso, e fanatico, covava l’interesse politico. A cavallo tra il 1700 e il 1800 visse Diego, nato a Lugano, creatura di Napoleone, ministro di polizia nel Regno d’Italia, delegato per la Valtellina al Congresso di Vienna del 1815, dove ottenne, unitamente a G. Stampa di Chiavenna, l’annessione dell’attuale provincia di Sondrio alla Lombardia, contro le mire grigioni che volevano riprendersi il tutto.

Cristina Cattaneo

Cristina Cattaneo
Costume