Cannes 2019

(Il film: It Must Be Heaven Elia Suleiman ha risposto ad alcune domande che vi riportiamo:

(Maria de falco Marotta)  C’era troppa confusione in giro per l’Europa per le elezioni politiche, per preoccuparsi della solita confusione e allegria del Festival di Cannes 2019!
Ma qui- pare che le cose siano andate per il verso giusto, anche perché a capo c’era il regista Inarritu, un adorabile e preparato regista che non ama fare troppe chiacchiere e che si è rivelato al Festival di Venezia(Alejandro González Iñárritu Città del Messico, 15 agosto 1963 è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico messicano, vincitore di cinque Premi Oscar, quattro Golden Globe, tre BAFTA e due David di Donatello. I suoi film da regista comprendono Amores perros, 21 grammi, Babel, Biutiful, Birdman e Revenant - Redivivo). A parte la selezione, - tutta buonissima-, a noi che preferiamo sempre i film dei registi più giovani e più “dimenticati” dalla folla che assedia come divinità gli attori e le attrici dei vari Festival, abbiamo scelto un film che ha ricevuto il Premio Fipresci e poi è di un regista palestinese, che noi amiamo particolarmente.
Il film è: It Must Be Heaven di Elia Suleiman che ha risposto ad alcune domande che vi riportiamo:

DOMANDA: It Must Be Heaven la vede tentare di arrivare all'essenza di ciò che significa essere non solo palestinesi, ma outsider. Ha sentito che doveva allontanarsi dal conflitto arabo-israeliano in questo film?
Elia Suleiman: No, non l'ho sentito affatto. Penso che stavo solo cercando di dire che il conflitto ha esteso i suoi tentacoli a qualsiasi altra parte del mondo e che c'è una "palestinizzazione" globale dello stato delle cose. È in pratica ciò che questo film cerca di indicare, in realtà. Voglio dire, lo stato di eccezione, lo stato di polizia e la violenza sono ora come un terreno comune ovunque andiamo. La tensione e l'ansia sono praticamente ovunque, e non è più solo un conflitto locale. 
Perché ha scelto Parigi e New York?
Per la ragione molto, molto semplice – quasi semplice quanto lo sono io – che non volevo fare il film in posti che non mi sono familiari. L'ho fatto una volta, ed è stato fantastico. New York e Parigi sono due luoghi in cui ho vissuto a lungo –14 anni lì e 14 anni là – quindi ho familiarità con l'umorismo e l'atmosfera di quei luoghi.
Le scene a Parigi spiccano perché ha girato con le strade completamente prive di persone e automobili. Perché ha fatto questa scelta?
Mostrare le ossa nude di Parigi è rivelare il sottoproletariato, rivelare gli oppressi, i senzatetto, i poveri, gli arabi inseguiti dalla polizia, lo stato di polizia. Volevo renderlo davvero evidente e non realistico, ovviamente, e per farlo, avevo bisogno di fare ciò che ho fatto. In qualche modo, speravo sempre che, se l'avessi fatto, la domanda da porre sullo stato delle cose sarebbe diventata più importante di quanto sarebbe stato se lo avessi fatto con l'animazione, o con un realismo di qualche tipo.
La prima volta che vediamo Parigi è in una versione da cartolina, e poi mostra gli addetti alle pulizie. Voleva dimostrare che esiste una diaspora collettiva di persone che vengono schiacciate dall'Europa e dall’America? Non intendevo dirlo; è semplicemente evidente. Fondamentalmente, il divario di classe ed economico, la migrazione, l'ansia e la violenza – di questo parla il film. Parla di discriminazione. Parla di declassamento in base al colore. È ciò che questo film cerca di rivelare, e collega tutto questo al colonialismo.
Chi è il regista
Elia Suleiman è uno dei preferiti del Festival di Cannes. It Must Be Heaven  è il suo quarto lungometraggio a partecipare al grande evento nel sud della Francia, e il suo terzo in concorso. Alcune cose non cambiano mai: Suleiman interpreta ancora una volta una versione silenziosa di se stesso sullo schermo e guarda al caos della vita che si aggira intorno a lui con divertimento. C'è un tocco di Jacques Tati nel tono e nello stile del suo lavoro, e questo nuovo sforzo, con la sua messa in scena in stile tableaux, ha un tocco di Roy Andersson.
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It Must Be Heaven è il film più divertente e accessibile di Suleiman fino ad oggi, soprattutto perché il regista porta se stesso fuori dalla sua terra natale palestinese dopo il primo atto e sposta l'azione a Parigi e New York. Non affrontando direttamente il conflitto israelo-palestinese, Suleiman è in grado di fare i conti con una domanda altrettanto pertinente: cosa significa essere un palestinese? L'erba del vicino è sempre più verde?
Il film inizia nei dintorni familiari di Nazareth. Vestito con il suo cappello tipico e il cappotto a tre quarti, Suleiman beve vino e guarda qualcuno cogliere un limone dall'albero del suo vicino. Costui sostiene che va bene così perché di solito chiede il permesso e questo gli viene concesso: "Non sto rubando". Eppure ogni giorno l’uomo invade un po' di più, abbattendo gli alberi e coltivando la terra – tanto da farci chiedere se in realtà non sia il proprietario. La scena è divertente in sé, ma fa pensare anche agli insediamenti in un film pieno di doppi significati. Il regista è consapevole di essere stato già su questo territorio prima, quindi è una mossa intelligente da parte sua quella di affrontare direttamente questa minaccia, e fare quello che hanno fatto molti palestinesi: lasciare il paese. Come regista, ha il privilegio di poter andare e venire, e non dover andare in esilio.
Quando arriva a Parigi, si siede in un bar e osserva la belle vie. Passano graziose modelle, e sembra una versione da cartolina della città, realizzata da una casa di moda. Ma le cose cambiano mano a mano che Suleiman trascorre più tempo nella capitale francese. Le strade sono stranamente vuote al mattino, e quello che vede sono neri che puliscono dappertutto, la burocrazia della polizia e una presenza militare. Quando si incontra con un finanziatore francese per il suo film, gli viene detto: "Non è abbastanza palestinese".
Quindi se ne va a New York, dove non riesce nemmeno a entrare in una casa di produzione cinematografica per presentare il suo progetto. Ovunque guardi, vede gli americani trasportare armi; è una situazione tanto negativa quanto quella che ha lasciato in Palestina. Suleiman prende di mira Trump e l'imperialismo americano semplicemente ritraendo fucili estratti dalle macchine e appesi alle spalle.
Le assurdità e le gag visive contenute in It Must Be Heaven sono alcuni degli sketch più divertenti che Suleiman abbia mai messo sullo schermo, rendendo questo film il suo film più gradevole e divertente fino ad oggi.
It Must Be Heaven è prodotto dalla francese Rectangle Productions e Nazira Films, la tedesca Pallas Film, la canadese Possibles Media e la turca ZeynoFilm, in associazione con il Doha Film Institute, Wild Bunch, Le Pacte, Schortcut Films, Maison 4:3, l’Arab Fund for Arts and Culture e KNM. Le vendite internazionali sono gestite da Wild Bunch.
Al termine di una competizione di un livello generale ottimo, tanto che un numero insolitamente altro di film aspirava seriamente alla vittoria, la giuria presieduta da Alejandro González Iñárritu ha voluto confermare questa abbondanza distinguendo nove lungometraggi nel palmarès, ma anche scartando alcuni dei favoriti più famosi per offrire luce ad audaci, giovani e donne. Ma è comunque un regista esperto ad aver vinto con un film molto apprezzato sulla Croisette dalla critica, giacché la Palma d'Oro del 72° Festival di Cannes è assegnata a Parasite di Bong Joon-ho. Con questa commedia drammatica notevole sotto tutti i punti di vista, e alla sua seconda partecipazione in concorso, il regista porta nel suo paese la prima Palma della sua storia.
In compenso, la sorpresa è venuta dal prestigioso Grand Prix attribuito a un’opera prima: Atlantique  della franco-senegalese Mati Diop. Mischiando realismo e fantasy per tessere a Dakar un’intrigante e nebulosa parabola sull’immigrazione, l’amore a la morte, questo film prodotto da Les Films du Bal, e coprodotto da Arte France Cinéma, Cinekap (Senegal) e Frakas Productions(Belgio), è venduto nel mondo da mk2 Films.
Il premio dell’interpretazione femminile ha consacrato l’attrice anglo-americana Emily Beecham per la sua performance in Little Joe  dell’austriaca Jessica Hausner. Prodotto dalla società austriaca Coop99 Filmproduktion con la struttura britannica The Bureau e i tedeschi di Essential Filmproduktion, questo lungometraggio è venduto nel mondo da Coproduction Office.
Il premio dell’interpretazione maschile ha ricompensato l’ottimo lavoro dello spagnolo Antonio Banderas per Dolor y gloria  del suo connazionale Pedro Almodóvar (al quale la Palma sfugge per la sesta volta nella sua carriera), un film prodotto da El Deseo.
Con Le Jeune Ahmed , i belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne aggiungono un nuovo riconoscimento, il premio alla regia, alla loro impressionante collezione cannense (Palma d’Oro nel 1999 e 2005, Grand Prix nel 2011, Premio della sceneggiatura nel 2008, interpretazione femminile nel 1999 e maschile nel 2002). Prodotto da Les Films du Fleuve con i francesi di Archipel 35, France 2 Cinéma, Proximus e la RTBF, Le Jeune Ahmed è venduto da Wild Bunch.
La produzione europea si è distinta anche con il premio della Giuria attribuito ex-aequo a due film: Les Misérables  del francese Ladj Ly (prodotto da SRAB Films e coprodotto da Rectangle Productions e Lyly Films, venduto da Wild Bunch) e Bacurau  dei brasiliani Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles (prodotto dai francesi di SBS Productions e i brasiliani di CinemaScópio, coprodotto da Arte France Cinéma e da Globo Filmes, venduto da SBS).
Il premio della sceneggiatura è andato alla francese Céline Sciamma per Portrait de la jeune fille en feu , una produzione di Lilies Films in coproduzione con Arte France Cinéma e Hold Up Films, venduta nel mondo da mk2 Films.
Una menzione speciale arricchisce il palmarès, quella a It Must Be Heaven  del palestinese Elia Suleiman, prodotto dai francesi di Rectangle Productions con Nazira Films, il Doha Film Institute, i tedeschi di Pallas Film, i canadesi di Possibles Média e i turchi di Zeynofilm, e venduto da Wild Bunch.
Quanto al futuro, è incarnato quest’anno dal cineasta guatemalteca César Diaz che si è aggiudicato la Caméra d'Or (riservata a un’opera prima, di tutte le selezioni) con Nuestras madres (presentato alla Semaine de la Critique), un film già vincitore del premio SACD assegnato nella sezione parallela. Prodotto dai belgi di Need Productions e coprodotto dai francesi di Perspective Films, questo lungometraggio è venduto da Pyramide.
Infine, per completare la razzia europea, è la produzione greco-francese La distance entre nous et le ciel di Vasilis Kekatos che ha conquistato la Palma d’Oro del cortometraggio.
Il palmarès:
Palma d'Oro
Parasite - Bong Joon-ho (Corea del Sud)
Grand Prix
Atlantique  - Mati Diop (Francia/Senegal/Belgio)
Premio alla regia
Jean-Pierre & Luc Dardenne - Le Jeune Ahmed  (Belgio/Francia)
Premio all'interpretazione femminile
Emily Beecham - Little Joe 
Premio all'interpretazione maschile
Antonio Banderas - Dolor y gloria  (Spagna)
Premio alla migliore sceneggiatura
Portrait de la jeune fille en feu  - Céline Sciamma (Francia)
Premio della giuria
Les Misérables  - Ladj Ly (Francia)
Bacurau  - Kleber Mendonça Filho & Juliano Dornelles (Brasile/Francia)
Menzione speciale
It Must Be Heaven  - Elia Suleiman (Francia/Germania/Canada/Turchia/Qatar)
Caméra d'Or
Nuestras madres  - César Diaz (Belgio/Francia/Guatemala)
Palma d'Oro al cortometraggio
The Distance Between Us and the Sky - Vasilis Kekatos (Grecia/Francia)
Menzione speciale
Monstruo Dios - Agustina San Martín (Argentina)

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