Libro di Davare tra realtà e fantasia

(Nello Colombo)  Quando la realtà supera qualsiasi immaginazione. “Il professore e il magistrato”, l’ultima fatica letteraria dello scrittore di lungo corso, Giacomo Romano Davare, navigatore solitario del pensiero e affermato conduttore del “Piccolo teatro delle Valli” e quello di Alcamo, va ben oltre il dualismo manicheo del bene e del male insito in ogni uomo. Ed è lo stesso autore a far luce sulle vicende narrate di tale Giovanni Adamo, “u prufessuri”.

“Giovanni Adamo era il fratello di mia nonna. Dirigeva un'azienda che esportava formaggi negli Usa  negli anni Trenta. La mafia prima inziò con estorsioni, distruzioni di beni, infine lo fece assassinare in una via non distante alla sua abitazione (al secondo piano dello stabile in via Mazzini, dove io sono nato e vissuto fino a quando sono stato ad Alcamo). Lessi personalmente la nota del segretario del comune che ne registrò la morte violenta. Il suo ritratto rimase nella casa della nonna dove io abitai per molti anni”.
E vero anche l’episodio dei suoi natali. Quasi uno scherzo del destino, nato dalla più fervida antologia romanzesca.
“Per la figura del Generale mi sono ispirato a mio padre. Veneto, figlio di genitori veneti nati in una frazione di Rocca Pietore (BL) e poi trasferitesi in Svizzera (mio padre era nativo di Strembenzel nel cantone San Gallo). Pochi giorni prima di partire come tenente dei bersaglieri per il fronte africano, si era sposato a Verona. Giunse ad Alcamo in ritirata con pochi superstiti della sua compagnia decimata dall'attacco americano nelle coste dell'agrigentino nello sbarco del ’43.
Mia madre era bellissima, e lui se ne innamorò perdutamente, lasciandola, purtroppo, in stato di gravidanza ma, minacciato da mio nonno (ecco il personaggio di Don Ciccino) con un semplice atto notorio la sposò assumendosi la mia paternità. Dopo l'8 settembre riprese il suo posto nell'esercito e combatté a Cassino con gli alleati meritandosi una medaglia al valore. Ma il suo coraggio militare non gli valse ad affrontare i problemi civili. Non avevo compiuto ancora due anni quando fu trasferito a Verona (io fui affidato ai miei nonni e rimasi ad Alcamo). Ma in quella città viveva la moglie. Il neo capitano Joe (diminutivo di Giuseppe), non sapendo come affrontare la situazione (non era possibile fino a pochi decenni fa dare il proprio cognome ad un figlio nato fuori dal matrimonio) fuggì in Francia con mia madre rifugiandosi dal fratello Romano, diventando a tutti gli effetti un “disertore”. Scoperto ed estradato in Italia, qualche anno dopo dovette presentarsi dinanzi la corte marziale che in prima istanza lo condannò a ventisette anni di carcere. Mia madre preferì rimanere in Francia, a Parigi. Solo poche volte ebbe la possibilità di venirmi a trovare ad Alcamo. Nell'autunno del 1953, avevo otto anni, mi portò con sè per due settimane a Parigi dove conobbi i miei zii paterni. Nel viaggio di ritorno in Sicilia passammo da Peschiera dove conobbi per la prima volta mio padre nelle carceri ricavate nell'antico castello. Poi tornai ad Alcamo dove vivevo con la nonna e la zia Ninetta (da tre anni era morto mio nonno e tre dei miei quattro zii erano emigrati in Argentina).  La mia famiglia si riunì a Palermo, dove frequentai il Nautico, solo quando, grazie ad un condono (per l'elezione del presidente Gronchi) mio padre fu liberato. La storia di Giovanni Adamo è in qualche modo una mia storia parallela. 
Reale anche l’episodio adombrato nello sfortunato incidente che vide la povera Ninetta, “tata” in terra svizzera, licenziata in tronco per aver avuto poca cura della bambina accudita, e infine morta di tisi al sanatorio di Sondalo. La sua tragica fine per “mal sottile” è legata invece al soggiorno parigino, mentre è vera la morte del fratello del nonno dell’autore, annegato nel lago di Lugano durante il salvataggio di una bambina.  Capitolo a parte meritano gli intrighi politici del tempo in terra sicula.
“Vincenzo Campo era figlio del cugino primo di mio nonno (Mimì Campo, socialista antifascista espulso dagli USA con un gruppo di intellettuali socio-anarchici siciliani negli anni del processo di Sacco e Vanzetti). Segretario regionale della DC siciliana, era capolista dello scudo crociato alle nazionali del 1994. Nella stessa lista c'era, al n° 3,  Bernardo Mattarella (padre dell'attuale Presidente della Repubblica) di Castellammare del Golfo. Campo era dato per sicuro eletto ma venne ucciso da “ignoti”, durante la campagna elettorale, mentre con la sua auto raggiungeva Gibellina dopo aver comiziato ad Alcamo.  A causa della sua morte, la moglie emigrò negli Stati Uniti con tutta la famiglia.
E’ da questo fatto che nasce la figura del “cucino americano”, Frank elemento di spicco dell’Fbi americana che lo scagionerà dal un improponibile castello accusatorio. Altra sconcertante figura è quella del “Senatore”.
“Personaggio ispirato all'on.le Ludovico Corrao, che, eletto deputato regionale negli anni '50, lasciò la Dc e fondò il partito Cristiano Sociale con Silvio Milazzo. Il cosiddetto “milazzismo” che si basava sull'appoggio di dissidenti DC, MSI e PCI, e durò poco. Uno scandalo (compravendita di condiglieri regionali) costrinse Milazzo alle dimisioni. Corrao, ideologo del partito, che aveva concepito il cosiddetto “compromesso storico” con un decennio di anticipo su Aldo Moro, fu minacciato e dovette lasciare l'Italia. Venne accolto a Mosca e, al suo ritorno, venne eletto alla camera del PCI . In seguito fu eletto più volte al Senato come indipendente di sinistra. Fu sindaco di Gibellina dopo il terremoto del Belice. Inventò per la cittadina siciliana le “Orestiadi”, proponendo tragedie greche in un teatro con tribune in legno che guardavano sulle rovine della vecchia Gibellina. Ottimo oratore, l'on.le era anche un  noto avvocato distintosi in parecchi processi di mafia come parte civile.
Parte importante, anzi decisiva nel romanzo di Davare la malagiustizia.
“La vicenda dell'uccisione dei due carabinieri di Alcamo la seguii personalmente come giornalista sul “Secolo d'Italia”. I colloqui che riporto nel romanzo tra il professore Gianfranco e il capitano della Digos è autentico. Mi resi subito conto che i ragazzi incriminati erano innocenti da molti elementi che non combaciavano. Tra l'altro era noto ad Alcamo che si erano sentiti la notte seguente il fermo dei quattro giovani, grida strazianti provenire da una caserma di campagna (è lì che furono seviziati per estorcere loro le confessioni). Purtroppo la verità, con la confessione di un maresciallo della Digos che fu testimone delle torture, è emersa solo trent'anni dopo”.
L’intero castello accusatorio che poi regge i fili dell’assurda accusa di omicidio di stampo mafioso del protagonista de “Il professor e il magistrato” si sgretola come neve al sole. Proprio come la storia dell’incriminazione dell”Ingegnere”.
“L'ingegnere incarcerato (lessi il mandato di cattura falso - diceva che il professionista non aveva esperito alcuna pratica, mentre l'unico suo intervento era stato proprio quello di inviare un progetto di messa in sicurezza dell'edificio in costruzione al genio civile di Trapani) era un onesto professionista, mio collega di Matematica. Fu sottoposto a tre mesi di galera per una vicenda che si concluse in pretura con la piena assoluzione del professionista perché il fatto (avrebbe istigato la proprietaria della casa abusiva messa sotto sequestro a togliere i sigilli!) non sussisteva (in un confronto, avvenuto dopo due mesi di carcere!), poiché la signora negò di aver mai detto che era stato l'ingegnere a dirle di riprendere i lavori”.
Fedele l’ambientazione del romanzo tra Sicilia e Valtellina
“Ovviamente Alcamo è il mio paese di nascita. Durante il periodo del Nautico, a Palermo abitavo vicino Piazza Marina (non distante dal porto vecchio e dalla “Vucciria” che descrivo com'era fino a 20 anni fa. Oggi è in triste degrado. Non sono casuali nemmeno le ambientazioni a Lecco (per un anno ho insegnato al “Parini”) e di Pianazzo (ho soggiornato un'estate nell'Hotel Belvedere di Pianazzo di fronte al quale c'è la piazzuola che si affaccia sul dirupo di cui si parla nel romanzo.)
Del tutto “immaginate” sono, invece, le scene ambientate nel carcere. Sono entrato solo due vote in una casa di pena. La prima fu quando mi recai a trovare mio padre a Peschiera.  La seconda volta, una decina d'anni fa, quando assieme agli attori del “Piccolo Teatro delle Valli” entrammo nelle carceri di Sondrio per recitare una commedia ai detenuti”.

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