Le “Omissioni” di Simone Cristicchi

(di Nello Colombo) Come un elfo benefico uscito da una foresta incantata, Simone Cristicchi, con la sua inconfondibile chioma ricciuta, il barbone socratico, la sua mise da menestrello d’antica foggia, ha riempito i vuoti di un Teatro Sociale al gran completo per una performance “intimista per tutti” nell’ambito de “La Milanesiana” ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, festival di respiro internazionale che tesse relazioni tra letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia, teatro, diritto, economia e sport, promuovendo il dialogo tra le arti, giunto quest’anno alla sua 23esima edizione.  Ed è lo stesso Cristicchi, artista a tutto tondo, che nella presentazione della sua mostra al MVSA svela l’arcano della tematica “Omissioni”, quella di una quarta irrisolta, del lasciare in sospeso attimi di vita come polvere di stelle che mulinano nell’aria in una danza antica, riannodando i fili di una memoria antica ancorata alla perdita inaccettabile di un bambino privato dell’adorata figura paterna. Suo padre. E lui, trafitto da un dolore lancinante, incancrenito, si rinserra in una stanzetta delle lacrime amare in cui annegare per troppo tempo inutilmente in cerca di una mancanza inaccettabile che si materializza infine nella sublimazione dell’arte fiorendo in mirabolanti figure nate dalla sua matita, che riempiono quell’immenso vuoto che lo aveva condannato a una cupa solitudine marcia di malinconia. Poi di colpo affiora la consapevolezza che nulla vada mai perso, e transustanzia infine la sua muta stanza in un oceano di stelle luminose che sanno parlargli, pur “omettendo” qualcosa di inenarrabile perché troppo amaro. Transumana così il nefasto ricordo del commiato in un universo ineffabile fatto di segni e note che brillano e che cantano indicando una via segreta per “uscire a riveder le stelle”. Qualcosa che si rinnova nel tempo, ogni volta che si spengono le luci di un teatro e si accende la fantasia, la musica e la parola alata. E così il Teatro Sociale respira all’unisono in un effluvio palpitante di emozioni. Tutto nel segno della rosa dipinta dall’immenso Franco Battiato, che fiorisce sul megaschermo in una caleidoscopica tavolozza di colori sulla sarabanda musicale de “Il ballo della rosa” targato “Extraliscio”. Mai come oggi c’è troppo bisogno di poeti e cantastorie, ma soprattutto di una bellezza che si conquista solo insieme con le poche cose che contano, nell’“l’infinita pazienza di ricominciare, il coraggio di scegliere da che parte stare, come una ferita che diventa feritoia, una matita spezzata che colora ancora”. Come quel disco dorato del Voyager in viaggio interstellare nel tempo che si trascina dietro un pezzo della nostra storia umana. Cristicchi affonda poi nella memoria di nonno Rinaldo cristallizzato nel gelo che si porta dentro dal ’41 dalle lontane steppe ferruginose di guerra nella pianura sarmatica, fino all’incontro con gli occhi dolci di nonna Selene. E canta: “Mio nonno è morto in guerra e muore ogni volta che un bambino viene mutilato da una mina che non sia di matita. Ogni volta che il silenzio discende sulle masse che non sanno”, concludendo amaramente: “…e muore ancora di più in questi tempi di finta pace”. Attuale quanto mai, come l’infame storia dell’esodo istriano con un quattordicenne come Sergio Endrigo che si porterà per sempre nel cuore quel tragico “volo di gabbiani telecomandati e una spiaggia di conchiglie morte e nella notte una stella di acciaio” per ricordare la fatica di essere uomini o che per fare un tavolo ci vuole il legno. Abile Cristicchi nell’affidarsi alla evergreen “Io che amo solo te” cantata all’unisono da una palpitante platea.  Malinconico sorvolo poi sull’ultimo valzer della dolce Lucia nel suo rapimento d’amore ottuagenario, navigando a vista tra la barbarie e la tenerezza nella tragica vicenda della dolcissima Maria Sole rapita alla vita a soli 9 anni. E il racconto di Cristicchi s’intenerisce e piange nel ricordo del concerto in sua memoria tra uno scampolo inatteso di sereno e il ritorno notturno tra i dolci pendii toscani, rapito da un palloncino sfuggito alla folla dei suoi bianchi compagni, che ondeggia placido, senza un singulto, sul lucido asfalto, in un dialogo etereo con una bimba che ringrazia nell’immenso respiro della natura. Concludendo che “le coincidenze hanno senso solo per chi le sa cogliere”. Scanzonato e divertito svela poi l’incontro con un’”avventrice” del mattino sondriese che lo imbecca con un “Sai che sei più bello da vivo?”. L’incipit per affrontare di gusto l’ironica “La prima volta che sono morto” con i dubbiosi propositi finali: “Quante cose avrei voluto fare che non ho fatto, parlare di più con mio figlio, girare il mondo con mia moglie, lasciare quel posto alla Regione e vivere finalmente su un’isola”, per concludere facendo spallucce: “E vabbè sarà per la prossima volta!”.  Toccante il ricamo di “Ti regalerò una rosa” per un amore mai appassito da vent’anni di chi ha imparato a tragicamente volare.  E infine, per essere un tutt’uno con la poetica amorosa di Battiato de “La cura” in cui tesse i capelli dell’amata come trame di un canto, e superando le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farla invecchiare, la salverà da ogni malinconia, avendo cura di lei, Cristicchi parafrasa la tenerezza assorta di quell’ “Abbi cura di me, perché mi trema la voce come se fossi un bambino, ma fino all’ultimo giorno in cui potrò respirare, tu stringimi forte e non lasciarmi andare”. Amorevole e un pizzico amarevole quell’“Abbi cura di me” che scioglie ogni ambascia terrena, quasi cullati dalla voce suadente e il tenero abbraccio di una madre. La poesia che canta, la musica che danza, il respiro che si contrae per farsi delirante sogno d’immortalità. Cristicchi finalmente sorride.
Nello Colombo

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