Arthur Miller in scena con "Vetri rotti"

Strano “ménage a trois” quello narrato nella pièce teatrale “Vetri rotti” dalla penna dell’amabile drammaturgo Arthur Miller che visse della divina Marilyn, icona della bambola sensuosa che incarnava i sogni lascivi di mezza America. Dall’altare all’alcova il passo è breve. Com’è triste il destino degli uomini e le donne che sanno accapigliarsi per un nonnulla, in preda a un delirio d’onnipotenza, o amarsi alla follia in cima al sacro furore dell’emozione, per scoprire infine di essere comunque pasto di vermi famelici. E com’è dannatamente difficile rimettere insieme i cocci di uno specchio infranto. Nemmeno il buon Zi Dima di pirandelliana memoria riuscirebbe mai a ricucire le ferite di un amore finito, col mastice della pazienza e il filo uncinato dell’accettazione supina dei ricordi lontani di un tempo forse a torto creduto felice, o della prole infingarda persa lungo altri lidi. Crudele e ottundente la smania di ancora cercare, e dolorosamente infelice la delirante smania di volare oltre i vuoti confini di un letto mai sfatto, alla ricerca del sapore della trasgressione o solo di una mano amica che sappia lenire il desiderio di essere donna. Nulla di più triste del ritrovarsi solo smaniando l’inutilità di una ruvida carezza, il fragile suono di una voce che gracida beffarda nella notte dei sensi, il fremito animale che scalpita nel buio, vomitando rabbia e apostrofi inaudite. E tutto adombrato nel velo luciferino di una Shoà appena intuita. Tanto per confondere le idee. In scena al Teatro Sociale si è recitato il Miller dei tempi migliori, quello di “Vetri rotti”, con un trio d’eccezione come Elena Sofia Ricci, Gian Marco Tognazzi e Maurizio Donadoni per la regia di Armando Pugliese. Il sipario si è aperto sul nudo palcoscenico della vita, immagine nell’immagine, specchio fedele della proiezione del dramma umano che si consuma sul soppalco minimalista dal fondale ligneo tuttofare mortalmente asettico, oppure rosso esangue, liscio, invalicabile, che sgravida dal suo ventre un ulisside talamo istoriato in cui si consuma il fallimento totale di un matrimonio più prossimo alla morte. Da una parte una donna spietata che non perdona mai l’indifferenza o la noia dello scorrere quotidiano di giorni sempre uguali. Meglio il tradimento talvolta. Da parte sua. Naturalmente. E lei sa come tirare la rete, a dispetto dell’inanime consorte, dall’altra parte, il pusillanime Phillip, alias Maurizio Donadoni consumato artista d’arte scenica, che macina qualche chilo di troppo in evidenza, ma perfetto quanto basta per gestire una weltanschauung semita annichilita dal bieco furore, finanziario più che razzista, del Terzo Reich. E ancor più per reggere l’inettitudine dell’uomo vinto dalle proprie angosce esistenziali, ferito profondamente nella “vis coeundi”. Da una parte l’isteria psicotica della mogliettina niente male che si lascia bellamente palpare dall’augusto terapeuta cupido delle sue labbra e della sua intimità, quanto lei che ostenta le sue grazie rigide come uno stoccafisso senza sale. Ma ancor più concupiscibili. Dall’altra l’arcaica prosopopea di un ebraismo fatto di tavole monolitiche incise sulla pelle come il marchio dell’esalfa di David. La verità è che siamo tutti pesci al largo in balia delle onde, prigionieri in una rozza rete tesa da un esperto pescatore di anime. Ma non siamo ancora pronti a farci apostoli del sapere. A Brooklyn nel novembre del ’38 anche le nebbie purulente di un’esistenza scialba possono intaccare l’anima di Sylvia Gellburg, ebrea irrisolta, condannata inspiegabilmente a piegare come una bambola di pezza le sue ginocchia burrose, senza più nerbo. Solo l’amico di famiglia, il dottor Herry Hyman, irresistibile Dongiovanni da strapazzo (Gian Marco Tognazzi) riesce in pieno “transfert” a penetrare nell’inquietudine molesta del suo intimo e nel suo letto, non certo insensibile al fascino della donna che ha bisogno di nuove conferme. Di una bellezza morbida e sensuale Elena Sofia Ricci nelle vesti di una Sylvia ossessionata dagli echi lontani della follia nazista. E ancor più dallo squallore di un’arida quotidianità senza più fuoco né passione. E per questo, perversa e vendicativa come solo una donna sa fare. Anche contro se stessa e la propria progenie. Medea insegna. Spregiudicata la chiave di una lettura freudiana ante litteram dell’opera di Miller che aggioga una tenera sposina afflitta da isteria fulminante da sindrome di privazione o, peggio, da “libido constricta”, - c’entra sempre il sesso nella mente pascente del buon Sigmund - annichilita in un torbido fiume di angosce. Inquietante quel sax assassino by night che sussurra languido tra le pieghe delle lenzuola di un letto monumentale ed ugualmente scarno. Glabro d’intimità.  E così la donna genera quel livore bilioso verso il tedio del talamo familiare minandole le gambe. Assurda l’analisi fanfaronata di Hyman che lascia che l’inconscio predomini nel ribollio ormonale di una bella donna da sedurre ventilandole una sconcia verità imputata all’esaltazione maligna della feroce Gestapo. Quando l’Imbianchino della razza ariana avviò “La notte dei Cristalli” i tempi erano maturi per mettere a tacere le coscienze in un sol colpo, per ferire, anzi cancellare l’umanità ebrea che si celava nell’anima traffichina di una Germania costretta alla revenge da ottusi trattati di un fine guerra senza vincitori né vinti che aveva generato solo odio e devastazione. L’analisi freudiana si dipana in un letto di vita e di morte. Ma il miracolo infine avviene: tutto si compie, la paralisi si scioglie quando Sylvia di colpo si erge sulle sue gambe flessuose dinanzi alle spoglie mortali dell’oggetto della sua repulsione, libera di cambiare finalmente il filo monocorde e monocromo della sua vita.
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