Sondrio. “Un borghese piccolo piccolo”

“Un borghese piccolo piccolo” tratto dall’allucinante quadro di un’epoca settantottina dipinta a fosche tinte da Vincenzo Cerami e immortalato nell’ icastico film di Monicelli con un impareggiabile Alberto Sordi, si fa surreale, annichilente, satireggiante messaggio nell’adattamento registico di Fabrizio Coniglio presentato al Teatro Sociale. Grottesco, tragicomico  nel suo humour nero che dissacra i valori di una giovane democrazia incarnata da una società del grassatore e del profittatore, delle facili  e pertinaci scorciatoie, costume italico di una fetta di arrampicatori senza scrupoli che pensano che la legge sia uguale per tutti, ma che sia un po’ più “uguale” per alcuni. E’ così che il maturo “borghese” Giovanni Vivaldi, un’intera esistenza spesa al Ministero, pensa di sistemare a modo il suo figliolo neo ragioniere in un concorso strapartecipato. Si rivolge allora al buon capufficio Spaziani ben avvezzo alle manovre di palazzo e a piccoli espedienti per saltare il fosso oltre i diritti di ciascuno. E’ un mondo fatto di sprovveduti provincialotti e  uomini gnucchi e cialtroni che addomesticano la loro epa a sfoglie di prosciutto per bendarsi gli occhi senza esitare a sbavarsi nettandosi la bocca  con sacro simbolo della bandiera. “La bocca sollevò dal fiero pasto” l’imbonitore Spaziani che tocca le corde più desuete dell’ingenuo Vivaldi spingendolo a passare dalla parte dei “Fratelli” massoni in una edulcorata e ironica commistione con la lobby segreta dal potere sovrastatale, per ottenere tutto. E facilmente. Come la soluzione per gli scritti concorsuali. Tanto agli orali ci pensano “loro”. Vivaldi ama svisceratamente il figlio Mario condotto, sia pur a malincuore, nelle sue scorribande domenicali a pesca gravitando attorno al vecchio “capanno”, rifugio personale per i propri pensieri. Ma il sogno s’infrange sulla punta di una pallottola vagante dopo una rapina.  E’ la spada di Damocle sul capo di ognuno che segna la beffa crudele del destino sulle umane speranze e gli inutili accanimenti per storpiarne o almeno deviarne l’inarrestabile corso.  Intoccabile e irraggiungibile Massimo Dapporto nella sua tragicità visionaria, nella truculenta narrazione dell’esecuzione sommaria dell’assassino del figlio, nell’amara consapevolezza di scoprirsi infine solo, devastato infine anche dall’annichilente dolore della moglie Amalia che si lascia spegnere in silenzio.  La pensione è arrivata. Sarebbe il momento per godersi la vita. Ma a cosa serve continuare la farsa di un’esistenza votata ormai all’abbandono e alla solitudine estrema. Capolavoro assoluto la colonna sonora di Nicola Piovani col suo intrigante, lamentoso sax su impianto d’archi da brivido, che dipinge i momenti salienti della narrazione incuneandosi perfino nell’insana revenge di papà Vivaldi torturatore al buio di un macabro trofeo strozzato da un fil di ferro assassino. E non c’è spazio per alcuna umanità nell’immane tragedia di chi sopravvive alla propria carne.  Soprattutto per un “borghese piccolo piccolo”.
Nello Colombo  

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