Nell’Inferno di Ivan Karamazov il Dio Orsini - Un gigante al Sociale

di Nello Colombo

Un gigante che s’innalza al cielo sfuggendo all’urlo della tormenta. Un gigante, Umberto Orsini, al Teatro Sociale, alle prese con “Le memorie di Ivan Karamazov” di cui si sente ancoratamente il suo doppio che torreggia e arranca, che urla e strepita, che si batte il petto, complice, anzi reo confesso di un efferato parricidio, e minaccia in preda a demoniache presenze allucinatorie che lo tormentano senza sosta. Il velo cupo, quasi lugubre, di un controsipario a scena aperta solleva i tormenti dell’anima di un essere inquieto ed inquietante che nasconde la putrefazione dell’anima col suo veleno incancrenito. Si aggira come uno spettro paludato nel suo lungo cappottone sdrucito, un rudere umano tra ruderi di cemento scarnificati, penduli e sventrati di un’antica nobile dimora ove regna solo la polvere del tempo che scivola cristallizzata in un bicchiere capovolto. Ivan Karamazov è l’ateo nietzschiano roso dalla frantumazione dell’Io, cupo  e perverso, è irrimediabilmente il “fugitivus errans” che inconsapevolmente anela a un Dio che lo bracca nell’intimo, e che lui ha anatemizzato per quel maledetto silenzio innanzi all’abominio del male, della turpe infamia della sofferenza dell’innocenza violata. Orsini è l’alter ego di un Ivan corroso da crucci irrisolti, in preda ai suoi deliri onirici e schizoidi, ed incanta con la sua voce dai mille registri di un organo a canne che non salmodia ma graffia e ferisce incarnando la nuova bieca morale della perdizione asservita ad un nichilismo distruttivo che non ammette “castighi” ai “delitti” dostoevskijani. E in un mondo ove tutto è permesso si raschia l’anima intorbidata da rimorsi stantii veleggiando tra malfermi confronti metaforici o  tentando vanamente  di chiarire gli eterni dilemmi della vita. Senza risposta. E lui resta lì, crocifisso alla roccia, in preda allo spiro mefitico delle spirali ventose infernali a ragionar di libertà, immortalità, d’insana sete di potere, preda di un eterno impassibile burattinaio. Di grande effetto scenografico le folate nevose che spazzano l’assedio dell’abbandono in una lama tagliente di luce che abbacina il labirinto scenico in cui anche la musica insinuante segna la resa finale nell’amara e lucida confessione: “Sono io il vero colpevole!”. Imprendibile Orsini-Karamazov nel suo impenetrabile linguaggio “amletico” mentre si districa a fatica impattando con la sua coscienza a 40 anni di prigionia letteraria, spiaccicato quasi innanzi allo specchio franto della vita. Una sfida con l’Altro. E così Dostoevskij rifulge di nuova vita ripartendo da dove la sua opera aveva abbandonato l’amorale Ivan, dal quel tragico processo per parricidio, aggirandosi nelle fredde, torbide stanze di una mente delirante che nessuna camicia di forza potrebbe mai contenere. Il mondo del teatro vive ancora di fasto e luce accendendosi d’incontenibile ammirazione per uno strepitoso interprete come Umberto Orsini che, in proscenio, si lascia avvolgere dall’ovazione del pubblico estasiato che vorrebbe ancora udire la sua voce cogliendo anche il minimo respiro di un’anima antica il cui canto resterà immortale.
Nello Colombo

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