Il CAOS IMPERFETTO DELLE VERGINI DORMIENTI

I dipinti di Andrea Gobbetti alla Biennale di Milano (di Nello Colombo)
Ars gratia artis. La Bellezza muliebre transumanante al divino. Andrea Gobbetti, pinctor dal sacro furore delle visioni apollinee di danzanti Menadi in estasi mistica, invasate da un dio, è il visionario “fugitivus errans” in equilibrio precario su un filo sospeso nel vuoto pronto a un quantico salto nel buio che lo sprofonderà in una dimensione parallela che scollina in un ibrido “metaverso” allucinato in cui ogni corpo svapora in una vertigine di opalescenze cromatiche circonfuse di luce, oltre-passando lo specchio incrinato dell’umana materia.  Per cogliere attimi d’immenso. O soltanto perdersi nella quintessenza incantata di un corpo sensuoso di donna dai veli dismessi, in una angelica nudità serafica e altera, eppure carnale visione per gli occhi che trasfigurano un volto, i suoi occhi verdemare baciati dal sole sfolgorante di una giovinezza gaudente, le metamorfosi vaneggianti dei fianchi che disegnano la curva perfetta del peccato adorante, quella chioma scomposta che lista lo sguardo malioso che intriga e che strega. Gobbetti è l’artista dalle mille risorse col suo iper realismo fantasmatico che indaga l’intimità di modelle della porta accanto, di una quotidianità turbinosa che di donne comuni fa Madonne caravaggesche trasfigurate dall’estro irrefrenabile dello psicoterapeuta del pennello. Nelle notti irrequiete della savana tanzanese, al seguito di tour operator di rango, ha appreso l’arte della scenografia d’alto bordo tra musical di prim’ordine, distinguendosi a corte di Peter Kreis per le sue visionarie “sindoni” artistiche su bianchi lenzuoli incisi di cupa cenere a mano o di aspra saggina. E’ così diventato l’apostolo di un vangelo apocrifo popolato di corpi femminei angelicati dipinti da un “dolcestilnovismo” che faceva l’occhietto all’infinito leopardiano dalla malinconia narrativa di una Silvia dei bei tempi andati, o alla disarmante debacle dei “Fiori del male” beaudelariani che navigavano avvinghiati tra un’amarevole tristezza e un erotismo estremo da alcova segreta. Mai trasgressivo, Gobetti, ha indossato la tonaca dell’amanuense cortese che nella solitudine austera dello scriptorium ha esaltato quell’indice a lungo proibito facendolo giungere al vanto dei secoli nuovi. Sempre alla ricerca di un caos imperfetto in cui tutto, pur nell’inquietante vertigine dello scontro, è al posto giusto, in un disordine complesso, in una geometria euclidea disancorata da leggi e dogmatici assiomi. E’ lo stesso Gobbetti in un autoritratto d’autore che fluttua tra una tormentata introversione volta all’intimità ricercata, e l’ondata avvolgente di una ricerca di un amore incandescente che dura finché dura, pur restando sempre fedele a se stesso. Artista tra gli artisti, fino al Giappone, agli States, ovunque siano giunti i suoi quadri, e finanche a corte di Brian May, il mitico chitarrista dei “Queen”, e alla Biennale di Milano. Dipinti alla ricerca estrema di una bellezza universale “sovrumana” che non sarà mai teatro dei sentimenti, ma sentimento di un teatro intimo che parla al cuore.          E allora pare proprio di vederlo Gobbetti, rannicchiato, quasi sconocchiato dietro al suo “tableau de travail” dopo notti insonni d’amore, in preda a quella prensione persecutrice che ha attanagliato la sua mano fino allo sfinimento, fino alla consunzione dell’anima, mentre si sgravida dell’ultimo parto, come della pelle di una serpe innamorata, esausto, stremato, stordito, volgendosi un solo momento verso il mare schiumoso in orgasmo a cui è appena sfuggito. Una donna. Forse solo una dea. Un diadema fiorito di rose e ciliegio al suo capo, una corona di giunchi e di peschi ormai in fiore sul suo volto celato da un serico velo di damasco cromato o da ignei arabeschi, i seni abbacinati dal sole leonino, le sue morbide labbra socchiuse in due enigmatici punti interrogativi, il lampo degli occhi felini velati da un tumido pianto inespresso, socchiusi nell’ evanescente turbamento del cuore. Affreschi di erotica luce che si aggrumano lievi in sublime poesia. Nessun ardore lubrico di una selvaggia “voluptas foeminae”, quanto l’idilliaco scernimento di una pudicizia e un nitore del gesto, pur con quel “talos a vertice pulcher ad imos”, a quell’incedere di una dea o solo di una regina sontuosa e sensuosa che si lascia alle spalle uno stuolo adorante, pur sapendo che “lis est cum forma magna pudicithiae”, sarà sempre una tentazione evatica alla concupiscenza che sfida ogni proclama ingiuntivo di un Eden proibito.
 

Nello Colombo
Cultura e spettacoli