C'è un tempo per vivere...Paolo Fresu - Chet Baker

di Nello Colombo

Genio e sregolatezza nel mondo del jazz con l'immortale Chet Baker che ha segnato un'era col suo immalinconito colore intimista di melodie tutte da vivere col brivido a pelle che canta la vita facendo il pelo all'ultima signora che vellica di brutto la fantasia involata dall'eroina. Sul soppalco di raso rosso dalle sfumature cangianti del Teatro Sociale troneggia la band  di un ispirato Paolo Fresu che incarna degnamente il grande Chet col suo flicorno magico, datato, unico, e la sua irresistibile tromba “a sordina” che col sustain all'infinito crea sublimi atmosfere che spezzano il cuore. A fargli balda compagnia un Dino Rubino che ricama di fino sul piano, un lenzuolo bianco dalle sinuose linee nere su cui volare con le dita con la leggerezza spedita di un bambino che corre a perdifiato lungo il corso di un torrente seguendo la scia di una barchetta di carta. Imprevedibile. E poi quel mattacchione di Marco Bardoscia che con suo contrabbasso ci gioca alla grande tra cavalcate selvagge e struggenti  arie in punta d'archetto. Quasi a fare da contraltare sulla scena, un rutilante night club e uno “Show Time” tempio del jazz che ospita i profeti della musica del futuro con quel “cavallo pazzo”, quel poeta maledetto di Baker che suona se stesso in “un pezzo di metallo” che vibra con le sue più profonde emozioni. E' la storia di Chet raccontata dall'universo umano che gli è stato accanto. Sin da bambino, quando suo padre gli misura il futuro come un vestito smesso da adattare donandogli la chiave per accedere all'Olimpo dei grandi con la sua inseparabile tromba. Ma qualcosa gli brucia dentro con la morte del pianista Dick Twardzik di cui avverte una responsabilità colposa che lo ficca nella stessa torbida rete della droga che gli costa l'asfissia di una spenta esistenza da cui faticherà a riemergere, costringendolo a morire mille volte e rinascere ancora per confrontarsi col mondo irrimediabilmente cambiato con l'avvento del divino Elvis che sposterà la bisettrice della musica verso il più abbordabile dei mondi canori.  In scaletta, brani del repertorio di Baker – da “My funny Valentine” a “When I fall in Love” – accanto ad originali scritti dal favoloso trio, che fanno drizzare l'anima  con la palpitante elegia del canto della tromba. La recitazione spesso gridata – peccato -  risulta sopra le righe musicali, sovrastata – e forse a buona ragione -  dal fiume tumultuoso di una musica che non ammette interferenze. Dopo il tormento dell'anima e del corpo ormai segnato, Chet Baker ritrova infine la sua voce purissima da eterno adolescente che, nuda, trascende la sua “Blue moon” prima di affidarsi ad un tragico volo nel vuoto, quasi una evanescente Tosca che non ha più ragione di vivere, se non quella di lasciarsi andare. A fine spettacolo il foyer impazza attorno agli interpreti di una partitura umana  prima che musicale, quasi a rendere omaggio, pur nella alla dissoluzione cromatica di una vita tormentata e sregolata, al grande genio la cui voce resterà per sempre. Come la sua tromba.

 

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