“Mr Green”, per la regia di Piergiorgio Piccoli al Teatro Sociale di Sondrio

La Memoria. Quella di un popolo sopravvissuto agli inganni e all’ignominia della storia nella disarmante pièce di Jeff Baron, “Mr Green”, per la regia di Piergiorgio Piccoli, con due esaltanti e veri interpreti della “Comédie humaine” come Massimo De Francovich e Maximilian Nisi. Un’intima e prodigiosa tragicommedia che sa graffiare l’anima fino in fondo e che ha retto a lungo il filo dei pensieri degli spettatori del Teatro Sociale. Tutto inizia fuori scena. L’assordante bailamme del traffico nell’ora di punta cittadina, nel cicaleccio della gente che si agita come in un formicaio nell’afa leonina, e lo strombazzare impazzito delle auto nella cupa frenesia di vespe in volo colte in fallo da uno sterpo maligno di un fanciullo molesto che rischia di brutto. Una brusca frenata. Non un grido. E la vita dell’irresistibile Mr Green cambia irrimediabilmente rotta, strascicata dalla tragica ruota del destino. L’umana semenza a rapporto, a pagare il fio d’interessi forzosi per 59 anni di felicità rubata, senza mai uno screzio. Né una sola incomprensione.  Ma, da quando la sua adorata e insostituibile Ester se n’è andata, s’è spenta per sempre la luce dei suoi occhi, tra spurie congetture inumate in un cassetto di ricordi malfatti che affiorano dolorosamente infidi tra le pieghe di una tenda paludata, di un’immagine sbiadita dal tempo, o solo del grigiore quotidiano di una sera come tante, recluso, abbandonato, sospeso su un’amaca di rancorosa rabbia e di eremo malfido. E allora capita che, avventatamente, ci s’infili nel bel mezzo della mischia roboante dei motori, forse solo per tendere allo spasimo il filo delle Parche, per sfuggire alla garrula ambascia di essere un sopravvissuto alle ruote assassine di un’auto fuori controllo, ma non al fuoco avvolgente dell’amore. E nulla conta nella tenzone umana che vaneggia l’oblio che stenta a declinare. E allora Mister Green, pensionato solitario della West Side di New York, è lì, inchiodato tra le sue quattro mura marce di malinconia a leccarsi le ferite e rimuginare in lungo e in largo per seppellire l’ineludibile dolore dell’insostenibile, onnipressante vuoto di una donna onnipresente, narrato dal querulo singhiozzo di un clarinetto bigolo e nasuto che rinfocola la cenere di un klezmer d’autore. Torreggia alto il menorah nella penombra cerimoniosa del salottino demodé tra sedie sghembe e un tavolo d’assedio di polvere e mille cianfrusaglie alla rinfusa. Sovrana, la solitudine impera sul dolore, come sale graffiante sulle ferite ancora aperte. Ma il karma, retto da una prodigiosa legge del contrappasso, bussa ancora alla sua porta con le nocche di tale Ross Gardiner, il guidatore folle condannato dalla giustizia – la Giustizia! – ad assisterlo per ben sei mesi nelle sue vicissitudini quotidiane. Un arrivo inaspettato, retto dallo sconcerto e dall’ubbia caliginosa di una rivalsa inutile e fraudolenta, che scardina pian piano la diffidenza iniziale stemperata infine in un dialogo franco e sodale che riannoda il filo della memoria di una giovinetta dolce e intraprendente conosciuta in coda a una toilette. La complicità dell’ascolto spiana la via alla confidenza, alla reciproca confessione. Due storie di un parallelismo atrocemente e irreparabilmente prossimo quanto mai: da una parte la giovane figlia di Mr Green, l’esuberante Rachele innamorata dell’amore, come può esserlo una diciasettenne alla sua prima cotta, che, avversata dalla paterna spocchia di un ebraismo a tutto campo mai affrancato da pregiudizi secolari, abbandona la propria famiglia per seguire i propri sogni. E a nulla servirà il diluvio di epistole sentite, raccolte nel pattume di Mamma Ester, impotente dinanzi al sedime irrefutabile della Torah.  Dall’altra, l’omosessualità confessa di Ross, ostracizzata e dannata quanto l’ebraismo nei forni crematori della Shoah. L’ abbacinamento della mente è “una sfoglia sottile di cipolla” che in una notte tempestosa coglie Mister Green che evoca i fantasmi di un passato con cui non ha mai voluto fare i conti. Ma sua figlia Rachele è lì, è tornata, con la vivida fiamma di un’erede, la piccola Anna - come l’amata ava -. E Ross, gay più per inerzia mentale che per convinzione, è ancora alla ricerca affannosa della propria dimensione. In un abbraccio solo si consuma la voglia di cambiare, sempre più forte, più incalzante, sempre più “green”, ma che, irreparabilmente inchioda alle proprie responsabilità.  Com’è difficile essere genitori! Dinanzi agli errori dei propri figli è inevitabile chiedersi: “Ma dov’è che abbiamo sbagliato? Quando qualcosa si è inceppato nel meccanismo educativo della nostra prole?”.  La verità è che si sbaglia comunque, anche per troppo amore. E’ dannatamente difficile consigliare, e poi farsi da parte. I figli non sono nostri. I figli sono il segno della nostra immortalità, ma non sono una proiezione inconscia dei nostri desideri né dei nostri fallimenti esistenziali. Nell’inutile e disperato appello, “ascolta, figlio”, c’è già la certezza di una libertà che annichilisce l’anima. Libero di decidere, libero di amare, di andare, libero anche di sbagliare. E questo lo ha recepito con un pizzico d’angoscia anche il folto uditorio del Teatro Sociale, che forse, con un brivido, si è interrogato sul proprio ruolo educativo in seno alla famiglia. Pensieri e parole e soprattutto l’esempio sembrano non più bastare in un mondo dalla spietata consapevolezza di essere al declino, disumanizzato da resistenze morali rette da gabbie mentali preconfezionate e dalla corrosiva voglia del “borderline” in cui è facile smarrirsi, senza più riconoscersi, succubi di nuovi schemi di antropofagi pensieri che nicchiano verso l’atarassia come pura assenza di emozioni. Quel che resta, allora, è solo l’esile certezza di aver fatto sempre il meglio. Comunque. Senza aspettarsi nulla in cambio. Sulla bilancia della vita pesano solo la forza del cuore e della mente. Sull’altro braccio, in bilico, la consapevolezza dei propri sbagli. L’intero universo retto dall’equilibrio dell’enarmonia. Non resta, dunque, che porsi in attesa. In attesa che oltre il buio torni ancora il giorno e che ci si possa ritrovare raccogliendo le briciole di quel che resta della nostra umanità. Proprio come Mister Green.

 

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