TEATRO. “La corsa dietro il vento”

di Nello Colombo

Una finestra ingabbiata verso il cielo tra strie luminose di polvere di stelle o solo del tempo, tra linee impalpabili di un pentagramma di luce oltre grate ferree su cui si stemperano le note multicolori delle novelle surreali di Dino Buzzati. E’ questa l’immagine evocativa del grande affabulatore bellunese nel 50° della sua scomparsa.  A ricordarlo al Teatro Sociale due vip, mattatori del grande teatro, come Gioele Dix e la poliedrica e multitimbrica Valentina Cardinali in “La corsa dietro il vento”. Difficile inseguire il turbinoso sguainarsi del soffio impetuoso del tempo sulla scia dei fecondi parti della fantasia buzzattiana, ma Dix sa muoversi a suo agio tra mille scartoffie incartapecorite e volumi e volumi che stanziano sugli scaffali di un atelier bibliofilo, una sorta di archivio dei ricordi in cui si compiono le vestizioni dei mille personaggi di racconti surreali. Forse un pizzico in più di ingordo humor forse non avrebbe guastato, principiando dall’ epistolario incompiuto dedicato a una donna ideale vestita da vergine gaudente o genio dell’ammiccante gioco dell’amore. Irresistibile quel filo del telefono gracchiante che interrompe maldestramente il filo dei pensieri tra racconti che si frammischiano alla vita reale dei ricordi dixiani negli indimenticati motti moraleggianti del padre, come quello di una mattina innanzi al mare, in quell’energico: “Ti sconsiglio vivamente di continuare ad aspettare”. Evitare dunque il Godot di turno per fare quello in cui si crede, e prima possibile, quando il tempo è ancora alleato. Dix con la sua voce calda e suadente sa viaggiare nel tempo senza tempo di Buzzati, sorretto dalla polifonia estrema della Cardinali, dal basso fondo e graffiato al sibilo acuto di una sirena innestata nel clangore di una pomeridiana metropolitana, e finanche ammaliante nel suo triste lallallà dal virgineo candore, vestendo i panni – letteralmente, e solo a metà, come un’umanità sospesa tra il sogno e l’abbandono  – dell’impiegatuzza di periferia o della segretaria tutto fare, della figliola “forestica” o di granitiche soldatesse o eteree fanciulle alate.  Il pretesto è una semplice pallottola di carta che sembra inseguire i canoni cinematografici di “Scoprendo Forrester” lasciando un cumulo di appunti in brutta copia che aprono orizzonti inesplorati. E allora eccolo l’ergastolano sfolgorante di luce al balcone, innanzi a 3000 persone che urlano, beffeggiano, sberleffano, irridono, in attesa della tumulante arringa che lo scaraventerà per sempre in un lurida prigione. Ma lui è lì, immobile, imperterrito, indecifrabile, in silenzio. E questo spiazza la folla recalcitrante che lo invita a parlare. Il paradosso si compie in un’arringa votata al suicidio: “Non obbligatemi a uscire di qui. E’ qui in questo penitenziario che voglio finire i miei giorni, non voglio commuovervi e non so che farmene della mia famiglia, qui vivo bene i miei giorni e quando voglio posso raggiungere tramite un passaggio segreto una villa in cui c’è una donna bellissima che mi aspetta. Mi ama.” Apologia della follia che gli propina una libertà insperata. Visionaria visione di una vita a scampoli come quella della diciannovenne Marta che traballa in bilico sul ventottesimo piano di un grattacielo e poi si lascia precipitare nel vuoto.  Ma nel suo viaggio aereo al rallenty getta uno sguardo indiscreto nei piani sottostanti dialogando con condomini curiosi, non certo ansiosi o inorriditi, che la invitato a entrare a far festa con loro, a bere magari un drink, ma lei ha fretta. Col calar della sera eccola lì spiaccicata come una pera cotta su un tavolo a brancicare nell’aria lo svolazzo del suo vestito. Una leggerezza narrativa che si consuma dietro un pennino sgangherato che farà posto ad una rozza matita spuntata con cui vergare un’eterna lettera d’amore senza amore.   
Nello Colombo

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