“Bozzetti Valtellinesi” di Giuseppe Napoleone Besta

(Nello Colombo) Al contrario di un tale Carneade manzoniano, Giuseppe Napoleone Besta, artista poliedrico e personaggio illustre della Tirano bene dell’Ottocento, dall’altisonante nome del fulgido Corso le cui conquiste si irradiarono dal Manzanarre al Reno, da Scilla al Tanai, gode di buona fama grazie soprattutto ad un pregevole volumetto di storie paesane, “Bozzetti valtellinesi” che “hanno cantato la patria, i semplici costumi, le domestiche cure, i prati e i boschi della Valtellina”.  Una Valtellina ancestrale raccontata all’Unitre di Sondrio con garbo da uno storico d’alta frontiera come Gianluigi Garbellini che ha ricordato le ultime vicissitudini di uno scrittore “romantico” che seppe parlare di amore e di morte lasciando la terra a soli 38 anni, ricordato da una semplice “tavoletta” su cui è inciso: “Qui dormono le spoglie di chi amò l’arte, la Patria e Dio, nel cui seno il travagliato spirito riposa”.  Nei suoi versi ha dipinto la sua terra superba distesa tra le Alpi e i suoi vigneti, ma è come trascinante affabulatore che si è conquistata la fama del popolo, narrando le sue storie nelle radure o al calore di una stalla, a sera, dopo le orazioni. E’ così che nasce la storia de “La bella mugnaia”, lacrimosa e crudele, come quella del soldato sbranato dai lupi nella Selvetta, accanto agli sberleffi carnascialeschi  o alle  scorribande  mangerecce irresistibili della sagra di Santa Pulonia a Nigola, entrando in un mondo rurale fatto di un’aneddotica che sa come suscitare devozione e pianto accanto al languor di stomaco ingordo e all’irrisione mordace di avventori d’osteria persi tra un boccale di buon vino Negrino e “sfogliatelle” aulenti spianate sul nudo pavimento.  Né mancano le visioni allucinogene della Magada, la turpe la megera che si cela negli anfratti scuri del bosco per farsi beffe di incauti visitatori, come il tenero Giovannino ammaliato in un bosco incantato da tre ninfe ignude, e finisce per  innamorarsi perdutamente della bella Cloe per farne la compagna di vita fino a perderla per sempre, come la sua vita, in un miserevole volo nelle acque di un torrente. Garbellini legge con gusto le maramalderie  e le tragiche disavventure dei personaggi del Besta come fiabe narrate accanto al fuoco, che stuzzicano la fantasia e incutono timore ai piccoli trascinanti in un mondo immaginario in cui tutto è possibile. Su tutto emergono quelle tradizioni ataviche perse tra un “Gabinat” e una lacrima di commozione per la dolce e sventurata Eufemia, persa nel crivello del destino, o in disgraziato Natale per l’ingenua Natalina, adolescente in boccio con le gonnelle che si accorciavano sempre più, arsa d’amore per il bell’Enrico, quando per cattiva sorte d’incantamento dopo una tragica caduta da cavallo, era spirata tra le sue braccia pronunciando il suo ultimo testamento d’amore: “Io muojo…se ti ho amato lo sai; ricordati che al mondo nessuno ho prediletto più di te, dopo i miei cari e Dio”. Un Dio che ritorna con benefica fede tra le pagine dei “Bozzetti valtellinesi”, ma scevra di quella religiosità supina e bigotta che sa di folklore superstizioso. “I Bozzetti” riemergono dunque con forza grazie a un divin curatore come Gianluigi Garbellini, già avvezzo alle grandi rievocazioni storiche di Valle, che ha siglato anche la prefazione della copia anastatica dell’opera del Besta custodita nella Biblioteca “Pio Rajna” di Sondrio.
Nello Colombo

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