“Sei personaggi in cerca d’autore”

Pirandellianamente sorprendente la pièce che ha inaugurato la nuova Stagione Teatrale presentata dall’assessore alla Cultura del Comune di Sondrio, Marcella Fratta, che ha fatto gli onori di casa entrando nella magia unica e irripetibile del teatro pirandelliano, lasciando poi al direttore artistico Fiorenzo Grassi i primi commenti sulla programmazione generale. Di scena “Sei personaggi in cerca d’autore” nella regia griffata di Michele Placido, con i bravi attori del Teatro Stabile di Catania. Sulla scena mille cianfrusaglie alla rinfusa, nell’apparente caos del palcoscenico della vita dove tutti urlano, si graffiano esasperati senza capirsi, in cerca di un Regista che metta fine allo strazio di una scordatura umana in cui ognuno è in cerca inutilmente del proprio ruolo, o semplicemente di un Autore che sappia mettere fine al guazzabuglio di guai che anima il vasto campionario umano, uscendo dalla perversa logica delle convenzioni. Il teatro nel teatro, così caro al maestro d’arte del sublime e della follia, che nel bel mezzo del parapiglia dell’allestimento di un nuovo spettacolo, lascia che i personaggi sfuggano alla sua penna vivendo di luce propria il loro dramma, come in un sogno nel sonno inquieto dell’esistenza umana da cui ci si desterà solo chiudendo gli occhi per sempre al mondo. Una schiera di reietti, schegge d’insana follia, irrompe sulla scena delle prove scompigliando le teatranti leggi della finzione scenica in nome di una verità “vera” o presunta, sfuggendo all’artificio delle confraternite degli inganni che vendono solo la parvenza scenica, l’illusione della realtà. Gli abbagli della mente, come quella di Madama Pace che nel suo atelier consuma l’abominio del corpo mercificato.  Basaltico Placido, aduso all’inquietante ruolo di un recalcitrante domatore di emozioni impervie, reggendo il filo ad una drammaturgia oscura e delirante che affoga con l’innocenza di una bambina in una torbida vasca, sale in cima al monte dei propri misfatti per vibrare il colpo mortale che echeggerà in una notte infinita, ma soprattutto annaspa nell’adescamento inconsapevole di quella che avrebbe potuto essere carne della sua carne.  Fisica, disperatamente e voluttuosamente seduttiva Dajana Roncione, la figliastra insidiata dal “vizio paterno”, che canta divinamente, piange e stride con la forza incontenibile di una passione immusonita da un destino beffardo, danza morbosamente come una Salomè destinata all’alcova, e si fa beffe del suo incauto aguzzino lasciando nuda la scena della sua presenza tra attori attoniti e atterriti da cotanto dramma spietato. Mostruosamente inarrestabile e indomabile Guia Jelo rinserrata nella sua armatura chiodata dello spasimo, una “cupa prefica” velata di nero che assiste inebetita al funereo corteo della sua anima dolente, una Maria svuotata di lacrime amare dinanzi all’inutile sacrificio di una progenie destinata al massacro. Ma infine regna ancora l’illusione, ancora una volta celata nello specchio franto di miriadi di immagini distorte, pallida immagine della realtà, fantasmatica larva di una mente ingannata dall’abbacinante luce di uno spot. Così impalpabile. Eppure così necessariamente unica per dare un senso, un’immagine “vera o presunta” alla vita.    

Nello Colombo

 

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