Il veleno silenzioso della violenza “Barbablù 2.0” al Teatro Sociale

(Nello Colombo) Il seme della violenza alligna ovunque. Come una serpe velenosa s’insinua nelle fenditure delle rocce, striscia melliflua nell’erba malefica, scava nel torbido umore della terra, per ghermire all’improvviso la sua preda. Ma non sempre è così. “Barbablù”, l’inquietante fiaba su cui ha messo le grinfie Charles Perrault, sembra non lasciare scampo alla misera principessa schiava dell’orco dalla barba ramata dalle venature del blu più intenso col suo micidiale bagaglio di scheletri nell’armadio. Magdalena Barile fagocita l’essenza dell’antica narrazione fiabesca per farne una cupa rappresentazione della violenza domestica declinata in una delirante chiave psicoanalitica affidandola a una incommensurabile Laura Negretti nei suoi balbettii inconsulti del cuore in disarmo, la sua farneticante visione di un mondo distorto, le sue isterie incontrollate di femmina vessata dalla prepotenza assurda e prevaricante di chi invece avrebbe dovuto solo amarla (un convincente Antonio Grazioli) e invece la condurrà in un abisso infinito di violenze inaudite. E’ così che nasce “Barbablù 2.0, i panni sporchi si lavano in famiglia” che è approdata al Teatro Sociale proprio nella giornata contro la violenza sulle donne. “C’era una volta un uomo con la barba dai terribili riflessi blu. C’era una volta un uomo che aveva avuto tante mogli: dicono sette ma forse anche di più…C’era una volta una porta chiusa che per nessun motivo doveva essere aperta…”: è questo l’incipit di escalation di violenza dal sapore di un’antica tragedia greca il cui alone di morte si respira sin dal primo momento. La scena di un sontuoso salone barricato da tre scarne porte lignee è la triste prigione della mogliettina deliziosa pronta ad accogliere a braccia aperte il maritino premuroso che torna dopo un lungo viaggio d’affari recando ogni volta un magnifico dono. Ma quel che serpeggia nell’aria ammorbata è quell’inquietante tumulto sotterraneo nei bassi più fondi di una tastiera orchestrale. E si muove piano, subdolo, minaccioso, pronto ad inchiodare quelle smanie depressive che trovano riparo solo nella farmacopea più “induttiva”, proclive alla sudditanza psicologica. Le ex del suo amato consorte che le fa terra bruciata intorno, qui sono tre, e tutte deviate dal rosso passionale della sfrenata sensualità a buon mercato. Eppure i dubbi sulla fedeltà del marito scafato s’insinuano lacerando la sua labile psiche dinanzi all’unico divieto, in un Eden straniante di solitudine, il comando assoluto di stare lontana dall’albero del frutto proibito, la stanza degli orrori dove custodisce i suoi orribili e inconfessabili segreti. Ma la donna biblicamente è donna e non resiste a quell’occulto richiamo “peccaminoso” della mela del sapere da mordere. E l’abbacinante verità le viene svelata in quel dannatissimo computer dalla più improbabile delle password, come un lampo accecante, e le tre donne del suo tormentato vaneggiare si sovrappongono freudianamente, materia della più rozza spirale della psichiatria più spiccia, in quel sensuoso rosso scarlatto che imbestialisce l’uomo dalla mente bacata che non intende perdere il possesso della sua preda, che anzi sembra istigarlo in un parossistico gioco di potere in cui è vindice dio punitivo verso chi ha osato trasgredire il suo rigido comando. La violenza dapprima ingabbiata esplode allora come un turbine sinistro nel suo “non posso lasciarti andare via” che come in ogni femminicidio non ammette replica e la bestia tenuta a stento a freno nel cuore malvagio di un Barbablù demoniaco le cancella il respiro soffocandola con tutte le sue forze. L’efferato delitto tra quattro mura marce di disperazione e solitudine è compiuto, mentre in lontananza s’orde il sibilo della sirena punitiva che aleggia nella sua mente malata. La ‘terribile porta che per nessun motivo doveva essere aperta’ si è spalancata come una cataratta del cielo scatenando tutta la furia devastante imprigionata in un vaso di Pandora. Troppo tardi. Per tutto. In proscenio una magnifica Laura Negretti, visibilmente scossa, si muove quasi spossessata dall’immane fatica di un dramma perverso accogliendo l’ovazione del pubblico sopraffatto da una pièce che lascia senza fiato. E un cumulo di pensieri.
Nello Colombo

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