Sondrio a Teatro: LA TRILOGIA DEL DOLORE

di Nello Colombo

Il dramma dell' Alzheimer spiaccicato addosso a piccoli sorsi avvelenati in una frammentazione scenica inghiottita nel buio, una frantumazione narrativa che coglie una dissociazione di idee sempre più evidente, sul palco del Teatro Sociale con “Il padre” di Florian Zeller che ha intinto la sua penna d'autore nel dolore di una perdita progressiva del ricordo. Lo smarrimento di un bambino abbandonato da una madre in un caotico bazar orientale in cui luoghi e persone si confondono, si sovrappongono, si macerano fino alla triste consapevolezza dell'abbandono in quello stilettato “Tu mi stai lasciando” di papà Andrea alla sua devota figlia Anna. Superbo Alessandro Haber, visibilmente segnato nella finzione scenica da un morbo inesorabile e terribilmente  progressivo, col suo mondo che si sbriciola sotto i suoi piedi da immaginario ballerino di tip tap, da indomito domatore di circo, da eterno sognatore disorientato in una casa senza più riferimenti, che in una sorta di regressione infantile si lascia cullare da una dolce nenia per il sonno che non verrà. E poi lei, Lucrezia Lante della Rovere, bella, seducentemente amabile, annichilita dal crescente spaesamento intellettivo del padre che, quasi in un accanimento terapeutico, porta in casa, ma  che è costretta ad abbandonare. Nell'universo franto della malattia, i doppi freudiani  della stessa  Anna, del suo compagno Piero e della badante Laura (i bravi David Sebasti, Daniela Scarlatti, Ilaria Genatiempo e Riccardo Floris) che ruotano in uno stagno obnubilato di memorie collassate, nello specchio franto di lembi sgualciti di istantanee sgranate dal tempo. Il dramma di un padre che avverte il vacillare della mente e ancora non intende perdere quel lume di ragione che lo tiene inchiodato ad un'esistenza che oscilla tra il pendolo del dolore e della progressiva perdita di sé. Il bianco e il nero, la luce abbacinante degli spot e la notte più fonda  si alternano rapidamente, pur senza cambi di scena, in un avvicendamento progressivo del male che incombe con dialogica e sferzante crudeltà nella  perfetta architettura di pareti semoventi dal biancore accecante di un appartamento asettico nello scintillio di carrelli tuttofare e sedie in plexigas d'autore in cui domina il rosso carminio che fa da sponda a un triclinio contemporaneo psicoanalitico mutatosi in un letto di tortura quotidiana nel mesto e inevitabile ricovero di una casa di cura. E Haber, da abile sognatore, evoca ancora un ritorno alla sua casa, al suo mondo di ricordi veri, per non correre il rischio di perdere tutte le sue foglie, una dopo l'altra, come quelle di Ada Negri, “foglie moribonde che tremano sì, ma di pena, nell'attesa di distaccarsi dal ramo per congiungersi sulla terra”.  Merito della regia di Piero Maccarinelli è l'aver raccontato con leggerezza e un pizzico di pungente ironia il deflagrare di una situazione insostenibile nel tempo, e in questo Haber si è rivelato un maestro insuperabile toccando tutte le corde del cuore. Anche quando in proscenio, dopo l'ovazione del pubblico, ha invitato gli spettatori a essere solidali nella lotta contro l'Alzheimer che in Italia sconvolge la vita di oltre 700.000 persone in una demenza dissolutiva delle cellule cerebrali. Quanto di peggio possa accadere ad un uomo. Il Teatro delle emozioni, dell'evasione, ma anche della riflessione su temi  spinosi che avvelenano l'anima.    

 

 

 

Cultura e spettacoli