LA CASA DELLA CULTURA E’ “CLASSE” E NON E’ ACQUA

di Nello Colombo

“La classe” di Vincenzo Manna per la regia di Giuseppe Marini approda al Teatro Sociale. Una storia del tardo terzo millennio. O soltanto quella che si sta consumando dietro l’angolo.  Una cittadina dell’Europa dell’Est, post conflitto etnico. Alle sue porte, il campo ripudiato dello “Zoo” popolato da un’umanità deietta di profughi scampati all’eccidio, al fragore assordante delle bombe, irranciditi dal tormento e l’angoscia del passo maligno dell’oppressore. Una ciurmaglia caotica e ostile in una periferia letale per chi oltre-passa un confine invalicabile tracciato da cleptocrati assetati di sangue e di potere. Eppure, nell’angolo bigio dei sobborghi c’è una scuola, o quanto ne resta di questa: scarni muri ammuffiti, a liste rozze e sudicie, finestre sgangherate a gabbioni ormai sconci, i banchi di fòrmica d’anteguerra, una cattedra malconcia in precario equilibrio, la lavagna di nera ardesia “scancellata” di brutto, e un lastricato sconnesso di cartacce stracciate, scampate chissà come a un “indice proibito” di mallevadori dell’omogeneizzazione della dis-cultura. E’ lì che al giovane Albert (Andrea Paolotti) viene affidata la gabbia delle fiere dai debiti insanabili per un improbabile corso di recupero per studenti allucinati, sballati, quasi fuori di testa, abbrutiti come scugnizzi brutalizzati dal bisogno, in cerca di un avviamento professionale. Un branco di galline inferocite e ammutolite da un pazzo burattinaio che si diverte a rinserrarle in scatole di cartone per vederle lentamente crepare, secondo una visione asfittica del preside (Claudio Casadio). E ce n’è per tutti i gusti, esemplari unici e irripetibili: Talib, (Andrea Monno) il  crepuscolare senza tetto, ospite nelle notti infami nel ciarpame che lo avvolge nell’angolo più remoto della classe; Vasile (Edoardo Frullini) il paranoico schizzato, dal gergo scurrile di un magnaccia insudiciato dal mercimonio della carne, uno sfaccendato senza alcuna voglia nemmeno di trascinare la carcassa del proprio corpo “stagnato”; la dolce Petra (Giulia Paoletti), la  signorinella vezzosa che aggira guardinga lo sguardo senza mai schiodarsi dalla sua sedia; la timida e sprovveduta Maisa (Cecilia D’Amico) che copre l’incendio della sua smania d’esser vista, magari appena notata, ma refrattaria a qualsiasi contatto; Arianna la bella (Valentina Carli) che talvolta si atteggia a vaiassa infoiata, preda scomposta, francobollata al suo dispotico e torvo Nicolas (Carmine Fabbricatore), un mascalzone matricolato che conosce solo il linguaggio della violenza e della sopraffazione, a cui l’unica cosa che importa è il “foglio di presenza” che gli garantirà infine il superamento del recupero dei crediti. E poi c’è lui il professorino mandato allo sbaraglio per far breccia nel disamore dispotico di lupi avvelenati da una società indifferente e balorda che ha issato da tempo i muri della diffidenza spinata di una relazione andata alla malora da tempo, intrappolati da un livore corrosivo, mortale. Vittima di un sistema balordo, irregimentato in uno steccato di perfide bugie, Albert ci prova comunque propinando loro subdolamente un bando europeo quattrinoso su “I giovani adolescenti vittime dell’Olocausto”. E ci vuole poco a capire che si parla proprio dei suoi fantocci senz’anima prima che della variegata fauna dello “zoo” vicino. E c’è chi infine ci crede e ci mette l’anima per entrare nei meandri oscuri di vessazioni politiche, torture organizzate e purghe liberticide.  Una rabbia oscura che monta selvaggiamente innanzi a un branco di imbecilli che si sono giocata l’anima di uomini depredati di ogni umanità. Ma Albert è dalla loro parte e vorrebbe salvarli dal fallimento totale dell’annichilente “A che serve studiare?”.  Vorrebbe gridare che sono loro a non sapere più cosa vogliono, che non è vero che tutto fa parte di un sistema ben oliato, teso al disonore e alla tirannide, che c’è ancora spazio per sognare, per credere in un mondo diverso, anche se…Eppure riesce e penetrare nella corazza coriacea di studenti alla deriva. E allora eccola Arianna che sfodera tutte le sue armi di seduzione perché ha solo fame di un po’ d’amore: una fighetta sexy in calze a rete e una stra-mini di pelle nera che si struscia torbidamente addosso cercando le labbra del professore disorientato che si schernisce come può. E’ il linguaggio del corpo a farsi allora più esplicito, più invitante, ebbro d’alcol e disperazione mentre s’aggrappa a un corpo amato che vorrebbe la carezzasse, l’amasse, prima di prenderla.  Ma il prof. resiste mentre irrompe la furia sciamannata di Nicolas vomitando ignominiose accuse e insolenti affronti nei confronti di Albert reo di tentare di salvare tutti, uscendo poi di scena seguito dalla scodinzolante ragazzina perduta che gli urla dietro il suo disperato “Perchè mi lasci sola?”. Ma cos’è che scava nell’intimo l’inquieta adolescente? Lo svelerà l’esito drammatico del suo tentato suicidio. Nessuno aveva mai capito il suo tragico tormento, quello dell’orribile violenza dell’orco tra le mura domestiche. Uno stupro dell’anima insanabile. Non le restava che farla finita. Eppure ci vuole coraggio a morire. Ed ora è lì tra la vita e la morte su quel filo impalpabile che separa i due mondi. E il peggio deve ancora venire: il corso di recupero viene inopinatamente sospeso e il concorso sembra andare a farsi benedire, mentre aerei minacciosi rombano nella notte col loro carico di morte, c’è una spietata caccia all’uomo e la situazione precipita con l’irruzione di Nicolas, come un forsennato Cerbero votato al male e che finirà male, che spara a bruciapelo all’incolpevole Albert. Nello stesso ospedale la pietas raggruma gli studenti attorno al letto di sofferenza dello scampato alla morte e alle misere membra della giovinezza sventrata della povera Arianna appesa a un filo. Solo l’ultimo capitolo narrativo sembra restituire al disagio belluino di una società decaduta un esile filo di speranza per far sì che del “giardino dei trifogli” non ne facciano una spelonca di dannati, o peggio, un campo di sterminio. E che la casa dell’”E-ducere” e della maieutica socratica esca dalla logica di una infingarda avanguardia intellettualoide che ha spazio solo la vile pecunia, per un materialismo avido e acido, per tradursi in un libro del sapere romantico della scoperta della conoscenza vera che non muore mai.
Nello Colombo

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