A Sondrio un capolavoro: “Il mercante di Venezia”

(Nello Colombo)  Shakespeare a casa di Goldoni tra le calli veneziane nella versione de “Il mercante di Venezia” firmata magistralmente da Paolo Valerio al Teatro Sociale di Sondrio. Un adattamento fedelissimo al sentire dell’epoca elisabettiana violentemente giudeofobica, fino all’ossessione, fino alla morte dell’usuraio imperfetto Shylock nell’edizione griffata del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con il Centro Teatrale Bresciano e il Teatro de Gli Incamminati, verso cui alla fine è possibile provare anche una certa compassione e una malcerta comprensione, quando, prono e ferito nell’intimo, depredato di averi, di affetti ed onore, condannato dal giudizio  “desigual” della Serenissima alla conversione, è spinto  alla costrizione amara a comunicarsi con una sacra particola che gli va di traverso soffocandolo. Gran conoscitore dell’umana specie, William Shakespeare mette in scena i suoi tempi tra scontri etici e religiosi, amore, odio, amicizia e lealtà che si scontrano con l’avidità pelosa dell’usura. Su tutto e su tutti un immenso Franco Branciaroli che illumina la scena nel suggestivo allestimento di Marta Crisolini Malatesta, tra laterizi nero pece su cui si aprono finestre lunari, assetate di luce, lucidamente crudele e spietatamente assetato di vendetta, trattato come un cane rognoso, bramoso di “roba” come uno scaltro Mazzarò verghiano, umiliato nel commercio mercenario di averi dal prode e nobile mercante Antonio (Pergiorgio Fasolo, perfetto nel suo phisique du role, voce autorevole della “vis” eroica romana) a cui vorrebbe incidere una libbra di carne più vicina al cuore come spietata obbligazione per non aver tenuto fede a un patto a cui non si è sottratto per farsi garante di un prestito per l'amico Bassanio, “cuor gentile” innamorato della bella Porzia. Svenevolmente e fascinosamente donna, la bella Valentina Violo, investita del rango di una principessa ambita freneticamente, per volere del padre principe di Belmonte, da chi ebbe nobili natali e capitali al sole, scegliendo tra l’oro, l’argento e il vile piombo, che si lascerà prendere il cuore dal buon Bassanio, salvando infine la vita allo stoico Antonio, nelle vesti di un principe del Foro, per un “semplice” cavillo giudiziario. Una schiera di giovani caratterizzati mirabilmente dalla penna shakespeariana (Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Dalila Reas, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli) dà corpo e anima ad una narrazione avvincente in un’architettura drammaturgica in cui si scontrano due visioni del mondo, speculari, ma opposte, inconciliabili. «Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall'estate e dall'inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?», è l’amaro assunto di Shylock, vittima di un feroce antisemitismo nella splendente repubblica marinara retta dall’impero aristocratico del Doge. Non è forse lo stesso commento di chi, sfuggito ad una guerra devastante che lo ha privato di tutto, e ai flutti burrascosi del mare su uno sgangherato cargo, chiede soltanto asilo e conforto tra gente generosa e “umana”?
Nello Colombo

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(Titolo a cura della redazione)

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