Il multiculturalismo che ci imprigiona

La maggiore responsabilità della politica

La questione del multiculturalismo facendoci vedere “altro da noi” ci mette in condizione di dover riflettere e rileggere la nostra posizione nel mondo e, in ultimo, il nostro stesso senso di identità. Per questo il contatto e la convivenza tra culture diverse suscitano, secondo il filosofo britannico Charles Taylor, il timore di non essere riconosciuti nella propria identità, nella propria originalità. Ma che cosa c’è di originale in ogni cultura, in ogni modo di fare e di essere? Che cosa possiamo contrattare e cosa invece non possiamo contrattare nel modo in cui viviamo il nostro quotidiano?

Tante delle battaglie del passato, come quelle del femminismo, sono partite da una stessa richiesta, quella del riconoscimento. Cosa c’era da riconoscere? Forse un modo particolare di fare le cose o di portare avanti i compiti all’interno del gruppo sociale. Da questa richiesta interna, del senso proprio di ognuna, si è formato un movimento che si è sviluppato in battaglie politiche, in lotte che, in qualche modo, hanno modificato delle condizioni iniziali di convivenza, come ai vari diritti.
Perché l’individualità, se riconosciuta, porta l’essere ad un contatto intimo con se stesso, ad una dignità profonda e gioiosa, pari ad una sorta di salvezza morale: quella che Jean-Jacques Rousseau ha definito “le sentiment de l’existance” (il sentimento dell’esistenza).
Quali sono le condizioni che producono, in alcuni contesti sociali – urbani e non – il senso di non-appartenenza, ovvero il contrario di quella sorta di “sentirsi a casa” che è premessa e risultato di relazioni sociali costruttive e improntate alla gestione dell’incertezza del futuro e che sortiscono effetti contrari di violenza, o di fondamentalismo?
Oltre la risposta immediata, soggettiva (esclusione, discriminazione, marginalizzazione, sfruttamento, umiliazione, delusione, insoddisfazione, ambizione…), riflesso di tratti sociali, economici, politici oggettivi (recessione e disoccupazione, per esempio), ritengo ci sia altro (espropriazione della capacità di agency che ciascuno vorrebbe per sé). È noto che la notte di Capodanno è una notte fuori dall’ordinario. Anche ai più morigerati può capitare, nella cornice straordinaria dell’ultimo dell’anno, di fare uno strappo alla regola. La percentuale di persone ubriache, o almeno alterate dall’alcol, quella notte, è molto alta, in tutto il mondo occidentale, ma non solo. Stappare la bottiglia è, del resto, il simbolo della festa del 31 dicembre. Si beve, a Capodanno, si alza il gomito, e tutto ciò che ci circonda sembra spingere alla frenesia del dover festeggiare, nella direzione di un superamento delle condotte normali, regolate e ordinarie. Si attua, quella notte, una socializzazione dell’eccesso. Si potrebbe aprire qui una linea di approfondimento estremamente complessa che a partire dalla dimensione orgiastica delle feste, sul piano alimentare – e anche sessuale. Sta di fatto che, come tutte le condizioni sociali fuori dall’ordinario, la notte dell’ultimo dell’anno è una cornice in cui i ruoli, i modelli appropriati di azione e di relazione possono saltare. Anzi, di fatto, saltano nella semplice e innocente condotta all’insegna della familiarità verso perfetti sconosciuti che nelle piazze e nelle strade cittadine – il Capodanno si festeggia fuori, all’aperto – può spingere persone che non si conoscono a scambiarsi gli auguri, persone che in circostanze normali certo non si sarebbero scambiate la parola né il saluto, né altre forme di reciproco riconoscimento.
In particolare, se pensiamo alla condizione di persone che conducono esistenze ai margini, si può immaginare che una cornice come quella della festa di Capodanno, una socializzazione dell’eccesso, appunto, spinga il passaggio da una cappa di silenzio, di paura, di controllo, di esclusione a un’esplosione di parole e azioni, anche aggressive.
Vale a dire, una cornice sociale eccezionale può indurre a rompere le convenzioni che regolano l’entrare in relazione, specie in soggetti che non le conoscono, perché provenienti da altri contesti.
Lo schiamazzo, il vandalismo, e finanche l’aggressione verbale e fisica possono essere un distorto riprendersi la propria capacità di agire, da parte di chi si sente vittima di un’espropriazione subita, di uno spodestamento della propria voce, del proprio corpo.
Il numero altissimo degli aggressori e l’impotenza delle forze di polizia, ignorate e finanche sbeffeggiate, attestano il carattere sociale dell’aggressione, e non sono un segnale.
Di certo le responsabilità, secondo i principi delle democrazie occidentali, sono individuali; tuttavia non andrebbero sottovalutati i rischi e le possibili conseguenze sulla vita di tutti che possono derivare da una condizione esistenziale sospesa, indeterminata, all’insegna della più totale incertezza, come quella delle centinaia di migliaia di persone che trovano “ospitalità” e asilo in Europa. Ospitalità e asilo non si possono negare. Qui si cela la maggiore responsabilità della politica, costruire un progetto che orienti il vivere insieme ormai inevitabile del mondo contemporaneo, creando le condizioni per il recupero della capacità culturale di pensare il futuro. Assolutamente insieme, senza i tentennamenti dei nostri giovani presidenti che non sanno proprio come agire e cosa fare per calmare le acque e permettere a tutti di vivere una vita regolare nell’armonia dei vari ruoli sociali. E’ possibile, è augurabile?

Maria de falco Marotta
Cultura e spettacoli