Le donne valtellinesi degli anni ’40 si raccontano
Le “Argonaute” si sono spinte nell’aperto pelago avventuroso del pianeta donna, completando la loro trilogia tutta al femminile, e, dopo aver esplorato l’ineffabile universo delle levatrici e delle maestre d’un tempo, hanno focalizzato l’obiettivo sulla “vita sacrificada” delle donne della nostra terra che hanno raccolto sulle loro spalle tutto il pesante fardello della cura della famiglia, del duro lavoro dei campi e delle bestie, in tempi di vacche magre, di profonde ristrettezze, ma anche di grandi valori. Tre grandi film d’autore gravidi d’emozione che lasciano il segno. Un segno inconfondibile e indelebile. Non un’operazione nostalgica che volge indietro lo sguardo con l’occhio umido di commozione per un mondo misconosciuto che rievoca comunque l’età più bella, quanto un recupero prezioso della memoria storica delle nostre valli. Affollatissimo il convegno presso la sala Vitali del Creval su “Donne, famiglia e terra in Valtellina e Valchiavenna negli anni ’40 e ‘50” che ha visto presenti anche tanti studenti del Liceo scientifico “Carlo Donegani” cittadino, accanto alle protagoniste delle incredibili storie di auguste donne, ora ultranovantenni in buona parte, intervistate dal grande cuore di Maura Cavallero, vicepresidente “Argonaute”, con il fedele nocchiero e compagno d’avventura registica, Maria Marchesi. Donne forti, tenaci, alacri, di poche parole, col viso solcato dagli anni, come un tronco inveterato, testimoni della storia delle nostre valli, che hanno consacrato tutta la loro vita sull’ara sacrificale di un tempo rio, eppure gravido di certezze. Quelle che latitano oggi nelle sfere più vaste della nostra società. E l’hanno fatto “perché si faceva quel che si doveva fare” nel loro tempo. Una lezione straordinaria per i giovani d’oggi giunti alla Sala per imparare tanto da uno spaccato straordinario e commovente sulla vita delle donne della Valle negli anni ‘40/’50, quando “era roba de matt” per una ragazza semplicemente allontanarsi da casa, anche per studiare o lavorare. “Si iniziava a lavorare alle 5 del mattino, con ogni tempo e ogni stagione, e si finiva a tarda sera”, racconta la signora Vittorina, classe ‘31. Vita difficile a quei tempi in cui “era giorno e poi ancora notte” in un susseguirsi inesorabile di giorni scanditi da un lavoro da “stelle a stelle”, nel cuore di una notte pirandelliana senza fine. Anche prima del parto. “Dopo aver lavorato tutto il giorno sono passata per i boschi in cerca funghi da dare all’”ostretica” che l’è arrivata mezzora dopo che era tutto finito. Ora finalmente potevo riposare per 3 giorni”, è infatti il racconto della signora Maria di Mellarolo. Stessa sorte per Nina della Bassa Valle sorpresa dai dolori da sola. “Ho chiamato, ma non c’era nessuno, nemmeno qualcuno dei miei vicini. Allora ho portato a letto i piccoli lasciando la lucerna accesa e sono andata a piedi fino a Madesimo a chiamare la Gina per partorire. Per la placenta la levatrice mi ha fatto soffiare in un nuovo e poi m’ha detto di seppellirla sotto i tetti, perché noi siamo cristiani, non bestie”, è il drammatico racconto della nascita del primogenito. Gina invece ricorda i bei momenti passati al lavatoio, luogo di favole e commenti, talvolta armata di martello per rompere il ghiaccio nei mesi invernali, o di soda e cenere per lavare i panni. Il momento più dolce quello per filare la canapa o vedere i campi fioriti di grano saraceno Tanti i capitoli esplorati dell’indagine antropologica delle “Argonaute”, che passa in rassegna il momento della fienagione e della transumanza, quella della gravidanza e dei sacri riti, quello della cura della famiglia, delle bestie, delle vigne e dei campi, e quello della umana solidarietà. “Allora eravamo tutti uniti, ci volevamo bene come una grande famiglia. E se serviva qualcosa, eravamo pronti ad assisterci l’uno con l’altro, anche nel lavoro, anche nel curare semplicemente i bambini, facendo sentire la propria vicinanza a chi viveva un momento difficili”, è il grande insegnamento di queste donne. C’è chi ha raccontato con gioia e chi con commozione, ma anche chi non c’è più come Irene di Caspoggio, che ci ha lasciato oltre il velo di una grande malinconia, il canto gorgogliante di “Campagnola bella” che per una volta si è aperta al sorriso.