Una voce dalla Sardegna, duramente colpita: “Riusciremo a farcela da soli”. Un abbraccio

Un messaggio di solidarietà e di speranza vola dalla Valtellina, duramente colpita nel 1983 e nel 1987, alla Sardegna. Ne abbiamo ricevuta tanta, allora, è gusto che così succeda per gli isolani. E non ci riferiamo soltanto alla parte 'materiale', alle risorse, che inevitabilmente, anche quando ci sono, ci mettono un certo tempo a fruttare risultati.

Ricordiamo quello che scrisse nel suo articolo di fondo Montanelli il 24 luglio 1987, a sei giorni dall'inizio della calamità e quattro prima della cancellazione di un paese: “Stanziamo i soldi ma diamoli ai valtellinesi. Sono gli unici che sanno come spenderli per le loro valli e che forniscono garanzia di non rubarli. E’ gente che merita, come a suo tempo la meritarono i friulani, la nostra fiducia. Il coraggio, la compostezza, la misura, la dignità con cui hanno saputo reagire alla catastrofe, sono, o dovrebbero essere, un esempio per tutti. Ieri, davanti allo spettacolo che la televisione ancora una volta ci proponeva di quei costoni mangiati dalla frana, di quegli squarci aperti dai torrenti impazziti nella carne viva della terra, , di quei desolati sudari di fango, mi è venuto fatto di pensare quanto ci piacerebbe sentirci italiani se l’Italia fosse, anche sommersa, tutta Valtellina”.

Ci piace pensare di poter dire lo stesso per un popolo che viene da lontano con una storia di sacrificio e di impegno, di poter dare a loro lo stesso credito che Montanelli diede a noi in un momento poi, tanto per cambiare, che accanto a chi si prodigava per alleviare una situazione disastrosa vedeva araldi di un triste spettacolo, taluni da assimilare ad avvoltoi piazzati in alto per diffondere, comiziando, il loro verbo.

In questi momenti, quando il cielo è cupo, la terra ci sfugge sotto i piedi, i volti o si impietriscono e lasciano scorrere lacrime e lacrime, dà una staffilata al cuore chi, avesse anche ragione, deve trovare le responsabilità, deve indicare colpe, deve poter fare titoli roboanti.

Anche noi, sì, anche noi quando ci toccava di leggere a fine luglio sproloqui di chi aveva individuato le ragioni: disboscamento selvaggio e lottizzazioni edilizie. Ci volle qualche giorno – e il primo a darne atto fu significativamente il Manifesto – per documentare che inesistenti lottizzazioni erano parto di qualche fantasia malata paracadutata in Valle e che il bosco non era diminuito ma stava salendo verso i 100.000 ettari sui 160.000 del territorio boscabile, quello sotto i 2000 metri..
Il colmo fu che in Consiglio Regionale fu deciso che la commissione di indagine varata per capire le ragioni della spaventosa frana della Val Pola – Newton non ha inventato la gravità, l'ha solo scoperta, e le montagne ne usano per scendere a valle - che aveva seppellito un intero paese accertasse quale rapporto era intervenuto con il taglio di piante a Bormio per i mondiali di sci (a distanza di chilometri e chilometri!)

Ci saranno anche responsabilità ed è giusto che ci si guardi dentro, ma con i piedi per terra.

Primo punto.
L'acqua. 450 mm in 12 ore. E' bene cercare di dare un'idea comprensibile che cosa vuol dire questo dato. Pensiamo alla signora Scarpasacchi che si trovi in una stanza della sua casa, diciamo di una quindicina di mq. Se le arrivano in casa 450 mm di acqua in quella piccola stanza il povero pavimento deve sopportare un peso di 70 quintali circa. Estendendo all'appartamento, che supponiamo di 100 metri quadrati, i quintali diventano, circa, 450!
Al tempo della nostra calamità l'Espresso pubblicò una lettera venuta da Sondrio che ricordava come tutti, senza eccezioni, avevano definite eccezionali le precipitazioni che avevano colpito Roma, e si trattava di 70 80 mm di acqua in tutto. Nel contempo si puntava il dito accusatore quando qui di acqua ne era caduta tanta, persino con punte a Scais di 305 mm in 12 ore, con uno zero termico alle stelle al punto che pioveva persino ai 4050 metri del Bernina!
Non basta una noticina di cronaca del tipo “Gabrielli dice che si tratta di evento eccezionale”. Si spieghi, spieghino i giornali quale ciclopico imperversare abbia colpito la Sardegna, talmente fuori da ogni possibile previsione da far pensare se non possa ancora succedere...

Secondo punto.
La Protezione Civile. Gabrielli ha detto di aver fatto quello che doveva fare avvisando la Regioni. Vero. Ma qui ci sono due linee da tenere presente.
Il giorno. Era domenica, come lo era quando nel 1983 ci fu Tresenda e quasi, sabato, per la calamità del 1987. In Italia se qualcuno vuole fare un colpo di Stato basta che scelga un giorno festivo. Se poi c'è un ponte ancora meglio. Tresenda fu alle 12.30. Alle 15 l'organizzazione aveva già una testa, con le principali istituzioni rappresentate, che decideva fiancheggiando i Vigili del Fuoco e con il volontariato in pista. Alle 17 gli evacuati venivano portati via con una carovana di pullman e accolti in convivenze (collegi ecc.) con registrazione anagrafica immediata e fornitura di vestiario e quant'altro da parte della Croce Rossa femminile. Tutti i Comuni erano aperti anche, ovviamente, nottetempo. I Sindaci in prima linea e con loro amministratori, tecnici, imprese. Non c'erano ancora Piani di Protezione Civile – pochi mesi dopo lo varava il Comune Sondrio in una con un piano geologico, uno dei primissimi esempi in Italia – ma la reazione era stata razionale e lo fu per tutti i giorni che ci vollero perchè il cielo da plumbeo riconquistasse l'azzurro.
Proprio perchè allora le cose andarono come descritto siamo qui a solidarizzare con i Sindaci.
C'è un dato di fondo, e cioè che chi vive in montagna, anche se con solo la quinta elementare, sa leggere l'ambiente in cui vive, ne capisce la febbre, ne teme solo le convulsioni perchè per il resto basta quel che le generazioni precedenti hanno lasciato e depositato nei nostri cromosomi, ma quando la natura esplode – l'abbiamo visto nei giorni e nelle settimane scorse – anche il montanaro deve alzare bandiera bianca e rimettersi all'organizzazione delle comunità. Prendiamo ad esempio la calamità del 1983, Tresenda, domenica – tanto per cambiare! E quella del 1987 parte sabato pomeriggio 18 luglio. La risposta immediata, tenendo conto che se le cronache hanno battezzato la vicenda come quella di Tresenda perchè lì c'era stata la maggior parte delle vittime.
Stiamo parlando di 30 anni fa, ma alle spalle c'era un prezioso bagaglio culturale e di esperienza. Si pensi che il 30 aprile del 1964, quasi mezzo secolo fa, la Valtellina aveva il suo “Piano Generale di Bonifica del comprensorio di bonifica montana dell'Adda alpino”, committente Consorzio dei Comuni del Bacino Imprifero dell'Adda di Sondrio, progettisti dr. Bruno Serragiotto e dott. Lucio Guetti. Piano realizzato in base al Decreto 46.782 del 25.5.1961del Ministero per l'Agricoltura e le Foreste emesso specificatamente per il BIM – Sezione Autonoma di Bonifica Montana. 66 i Comuni interessati di cui 34 per l'intera superficie e 32 solo in parte 235.000 circa gli ettari di territorio interessato
Non so quanti in Italia allora fossero a questo punto, posto che ve ne fossero..
Non si trattava di un Piano da mettere in qualche scaffale della biblioteca. Seguirono infatti interventi di vario tipo di carattere idrogeologico. Emblematico un vistoso esempio: la strada dell'Aprica. Il BIM era intervenuto dove la propria Sezione Autonoma aveva competenza, anche con una spesa non rilevante, sul versante attraversato  da un corso d'acqua. Nonostante l'ira di Dio di acqua dal cielo la SS39 in corrispondenza di quel tratto non ebbe alcun problema. Ci furono per una frana sopra l'abitato di Motta che si ripercosse sulla viabile al punto da richiedere poi interventi per 30 miliardi. Nel tempo maturava una preziosa esperienza collettiva  sempre più attenta ed anche efficiente. Alle facile obiezioni che però in certe situazioni “se si fosse intervenuti... ecc. ecc.” vale  di rispondere che qualche anno fa sono stati censiti 1300 dissesti in provincia su 3200 kmq di territorio, metà sopra i 2000 metri e fino ai 4050 del Bernina che si stende per 200 km di Alpi. Non si può intervenire dappertutto, si deve intervenire secondo priorità la prima delle quali riguarda il rischio per le persone.

Dalla retrospettiva valtellinese la solidarietà per i Sardi
Tutto questo non per mettere distintivi o per stimolare applausi. Tutt'altro. Il discorso è rivolto a quei Sindaci ai quali, ricevuto un fax – taluni dopo la furia della natura il lunedì mattina all'apertura degli uffici – è restato il cerino in mano. Ci porta a spezzare una lancia la dichiarazione di uno di loro, fin ingenua nella disarmante semplicità della sua risposta a chi lo intervistava chiedendo come mai il suo Comune non aveva fatto il prescritto Piano di Protezione Civile. “L'Ufficio Tecnico non ha avuto il tempo...”. Chi fa il Sindaco non ha certo il dovere di essere enciclopedico ma quello di informarsi sì. Se, come hanno scritto i giornali, di allarmi ne arrivano 20 in un anno e quindi non è pensabile che si pensi ad evacuare la gente in continuazione, viene il sospetto che la trafila diventi il mezzo per assicurare a ciascun anello della catena di essere a posto, non di risolvere i problemi.
Abbiamo saputo che il fax è stato inviato alla Regione domenica. A chi l'ha spedito non è venuto in mente che i Municipi non sono aperti la domenica? Ma a chi dirige la baracca non viene in mente che il fax è ormai archeologia delle comunicazioni, che da un po' di tempo ci sono i computer, che da un po' di tempo c'è la posta elettronica, che recentemente è arrivato l'obbligo di avere la posta certificata? Che da un po' di tempo ci sono i cellulari che mettono in condizione di rintracciare i reperibili, se ci sono, amministratori e personale, in tempo reale? E la stessa materia dei Piani di Protezione Civile non richiederebbe forse che venisse dipanata coinvolgendo amministratori regionali, provinciali, comunali e tecnici del territorio? E non si dovrebbero chiamare i Sindaci spiegando che certamente c'è la componente tecnica ma i primi input, in coerenza con le indicazioni di scenario, dovrebbero essere loro a darli in relazione alla conoscenza dei luoghi, delle situazioni, delle persone e magari anche della storia del paese ricordando che se si tratta di acqua, lei sa, anche a distanza di secoli riprendere il cammino lungo il percorso di minor resistenza (Tartano 1987). E poi concretezza nei Piani. Ce ne sono di quelli per i quali si prevede dove alloggiare gli evacuati, i trasporti e quant'altro. Non sono priorità, l'ottica dovrebbe essere diversa. La priorità di un Piano è salvare le vite umane limitando, ove possibile, i danni alle cose. Il resto verrà dopo.

Terzo punto
In Sardegna ci si dice che i Comuni coinvolti sono stati 60 anche se ovviamente non tutti con la stessa intensità distruttiva. Quali possibilità reali vogliamo accreditare ai loro Sindaci specie se lasciati ognuno alle prese con problemi più grandi di loro e di tutti i loro colleghi?
Il discorso a questo punto dovrebbe allargarsi, investire la pianificazione, toccare il delicato tasto delle risorse, ma ci sono cose che si possono fare anche domani. Ulteriore esempio. Nelle zone sismiche in certe scuole si fa quello che dovrebbe essere addirittura un obbligo: come ci si deve comportare se arriva una scossa di terremoto. In altre non si fa nulla. Qui non c'entrano le risorse, c'entra la volontà di fare. Se non ci si arriva da soli ben venga il rigore.

Ci consola una splendida immagine
Ci fermiamo con un'immagine splendida che ci viene da una landa desolata, lasciata così dal turbine. Lì c'era una stalla con tante pecore. Tutto spazzato via. Il titolare raccontato al giornalista come sono andate le cose, irrigidendo i muscoli del volto e con una impressionante determinazione di grande dignità se ne esce con una frase che ha un valore di giuramento: “CE LA FAREMO, DA SOLI”, e poi quasi sussurrando “senza l'aiuto dello Stato o della Regione”. Viene in mente l'episodio ricordato da Augusto Abbiati al rientro dalle zone di Veneto e Friuli devastate dall'alluvione del 4 novembre 1966. Al primo incontro con la tragedia, una casa semidiroccata, uno stop del furgone con aiuti partito da Sondrio, per dare soccorso alla coppia anziana seduta fuori di quel che restava dell'edificio. La risposta: “portate la roba a chi ne ha bisogno”. Non é questione di latitudini, come dimostra un altro episodio del tutto simile sulle montagne dell'Irpinia, in ginocchio per il sisma, capitato ai soccorritori di Sondrio. Sono episodi che riconciliano con l'umanità consentendo di vedere ambo le facce della medaglia e non solo il disarmante quotidiano rosario delle cose che non vanno.
“Riusciremo a farcela da soli”. Fosse ancora con noi Montanelli all'autore di questo impegno, con se stesso, con la sua gente, con la sua terra, dedicherebbe certamente un commento nella sostanza simile a quello, riportato dianzi, dedicato ai valtellinesi. Da parte nostra un abbraccio virtuale con l'auspicio, caloroso, che possiate riuscire, come è stato per i friulani e anche per noi.
 

Alberto Frizziero
Editoriali