ANCHE NELLA LIBIA "LIBERATA" DA GHEDDAFI LA SHARIA SARA' LEGGE 11 10 30 6

L'annuncio dal Cnt - Cos'è la Shari'a - Fiqh - Paesi in cui è in vigore la Shari'a -Sharia e Dar al-Harb - L'Occidente - Fonti della Shari'a - La pena di morte nella Shari'a - Piccola bibliografia

L'annuncio dal Cnt

Il Presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil, dopo la morte di Gheddafi, annuncia la nuova era. Si ricomincia dall'inno nazionale, con la vecchia bandiera monarchica verde-nera-rossa, e - in ginocchio e in preghiera, al microfono dice : «Essendo una nazione musulmana la sharia è per noi la fonte del diritto, ogni norma che contraddica i principi dell'islam non avrà più valore». Bum, badbum!!!! Addio, carissimi che vi eravate abituati (grosso modo) ai costumi occidentali introdotti dal vostro "dittatore", da ora in poi la legge su matrimonio e divorzio verrà rivista compresa la norma anti-poligamia, che saranno aperte banche islamiche ossia estranee al concetto d'interesse, che Allah è grande e poi ringrazia la Lega Araba, l'Onu, l'Europa e i martiri passati ormai «nel migliore dei posti, il paradiso eterno».

Tra luci e ombre la Libia si lascia alle spalle quarant'anni di regime. «L'uccisione di Gheddafi ha un po' macchiato il Cnt», ammette il neoministro della Difesa britannico Philip Hammond. L'episodio dell'esecuzione del Colonnello resta un giallo su cui anche la Farnesina chiede un'inchiesta auspicando «che si faccia luce in tempi rapidi». «Tutti i giochi sono aperti, il Paese non è wahabita e non rischia un'islamizzazione alla saudita ma potrebbero prevalere le correnti più radicali» nota lo studioso libico Karim Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma e coautore del saggio «I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo». Il ricorso alla sharia non lo stupisce: «Era già stata subdolamente inserita nella Costituzione presentata a luglio a Washington e mal tradotta in inglese. Rispecchia la natura dei libici che si sono reislamizzati in questi vent'anni, da un pezzo a Bengasi come a Tripoli ci sono sempre più donne velate e non si beve vino».

Secondo quanto comunicato dal leader del Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, il nuovo governo della Libia verrà annunciato, nelle migliori delle ipotesi, tra due settimane al termine dei colloqui per la scelta del primo ministro che prenderà il posto di Mahmoud Jibril, dimessosi questo fine settimana. Abdel Jalil ha anche affermato ieri, generando timori in tutto il mondo occidentale, che la nuova fonte del diritto per la Libia post Gheddafi sarà la Shari'a, ovvero la legge islamica derivante dall'interpretazione del Corano. Oggi, sempre Jalil, ha voluto rassicurare la comunità internazionale riguardo al rischio che il Paese possa scivolare verso l'estremismo religioso ribadendo che i libici sono musulmani moderati ma quando gli è stato chiesto se il cadavere di Muammar Gheddafi verrà consegnato ai suoi familiari, Jalil ha spiegato che "tutto ora e' nelle mani del Mufti". Il Mufti "è un giurisperito musulmano (faqih) che, per i suoi studi e la sua buona nomea, è autorizzato a emettere una fatwa, cioè un responso giuridico su una fattispecie astratta, basato sul disposto della Sharia (Cfr. Wikipedia).

Cos'è la Shari'a

Sharia è un termine generico utilizzato nel senso di "legge" che indica due diverse dimensioni, una metafisica ed una pragmatica.

Nel significato metafisico, la Sharia è la Legge di Dio e, in quanto tale, non può essere conosciuta dagli uomini. Per acquisire una dimensione pragmatica la Sharia deve essere interpretata dagli uomini che attraverso un'opera di Fiqh ne ricavano le indicazioni per giudicare le azioni. Da qui nasce la "giurisprudenza coranica" o Legge Coranica che potremmo paragonare, per la sua funzione, al nostro diritto positivo.

Fiqh

Lo storico Ibn Khaldun definisce il fiqh come la "conoscenza dei comandamenti di Dio che concernono le azioni, qualificate come wājib (obbligatorie), ḥarām (vietate), mandūb (raccomandate), makrūḥ (disapprovate) o mubāḥ (indifferenti)

Le fonti della legge islamica sono il Corano, la Sunna (ovvero i racconti del Profeta), il consenso dei dotti (ijmā) e l'analogia giuridica (qiyās).

La Sharia, in senso stretto, metafisico, riconosce come fonti solamente il Corano e la Sunna in quanto entrambi diretta espressione della volontà divina.

Paesi in cui è in vigore la Shari'a

Secondo i più intransigenti osservatori della Legge di Dio la Shari'a non è più in vigore in nessuno Stato dalla fine dell'Impero Ottomano. Tuttavia in alcuni Paesi, con livelli di applicazione differente, è in vigore una legislazione dichiaratamente ispirata ai precetti della Shari'a.

L'Arabia Saudita (Regno Arabo Saudita), ad esempio è una Monarchia assoluta islamica dove la Costituzione coincide con il Corano e la Shari'a in senso stretto è applicata dai tribunali coranici.

Anche nello Yemen, dove è in corso una rivolta contro la presidenza di Ali Abdullah Saleh, cosi come in Oman, in Iran, in Giordania la Shari'a è la principale fonte del diritto.

Sharia e Dar al-Harb

L'Islam divide il mondo in due parti. La parte governata dalla Sharia, o legge islamica, è chiamata Dar al-Islam o Casa della Sottomissione. Tutto il resto è Dar al-Harb o casa della Guerra, così chiamata perché ci vuole la guerra - guerra santa, jihad - per portare quest'ultima alla casa dell'Islam. Nel corso dei secoli la jihad ha assunto forme diverse. Due secoli fa, per esempio, a causa dei pirati musulmani provenienti dal Nord Africa che ne depredavano le navi e rendevano schiavi i loro equipaggi, gli Stati Uniti combatterono le Barbary Wars del 1801-05 e del 1815. In anni più recenti, l'arma preferita dei jihadisti è stata, solitamente, l'attentato terroristico; l'utilizzo di aerei come missili in occasione degli attentati dell'11 Settembre 2001 è stata una semplice variante di questo tecnica.

Ciò che non è stato sufficientemente riconosciuto, tuttavia, è che la fatwa del 1989 scagliata dall'Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, autore dei Versetti Satanici, ha introdotto un nuovo modello di jihad. Invece di prendere d'assalto navi o edifici occidentali, Khomeini prese di mira una libertà fondamentale dell'Occidente: la libertà di parola. In anni recenti altri islamisti si sono uniti alla crociata cercando di minare alla base le libertà fondamentali delle società occidentali per estendere in tal modo la Sharia al loro interno.

L'Occidente

I jihadisti culturali hanno potuto godere sinora di un inquietante successo. Due fatti in particolare, l'assassinio ad Amsterdam nel 2004 di Theo Van Gogh per punire il suo film sull'oppressione islamica contro le donne, e l'ondata globale di proteste, assassinii e vandalismi seguita alla pubblicazione nel 2005, da parte di un giornale danese, di alcune vignette satiriche su Maometto, hanno avuto massicce ricadute su tutto l'Occidente. Sotto l'influsso di spinte diverse, ma senza dubbio simultanee, quali la paura, un malinteso senso di solidarietà e un' ideologia multiculturalista che ci insegna a sminuire le nostre libertà e ad inginocchiarci davanti a culture non occidentali, per quanto repressive, persone di ogni livello all'interno delle società occidentali, ma soprattutto i loro gruppi dirigenti, hanno permesso che le preoccupazioni su ciò che i musulmani fondamentalisti potessero ritenere, pensare o fare influenzassero le loro azioni ed espressioni. Questi occidentali hanno cominciato, in altre parole, a fare proprie le osservanze della Sharia e perciò ad accettare la condizione deferente di dhimmis, ossia di quegli infedeli che vivono all'interno delle società musulmane.

La si chiami pure resa culturale. La Casa della Guerra sta lentamente, ma non tanto nel caso europeo, venendo assorbita dalla Casa della Sottomissione, l'Islam.

I media occidentali sembrano seduti sul sedile del conducente in questa corsa alla Sharia. Spesso il loro approccio è quello di argomentare che saremmo noi occidentali i bambini cattivi. Quando Pym Fortuyn, il sociologo olandese ormai scomparso, divenne un politico e suonò la sveglia sul pericolo che l'islamizzazione d'Europa poneva alla democrazia occidentale, influenti giornalisti l'hanno etichettato come una minaccia. Un titolo del New York Times lo descrisse alla testa di un'Olanda in marcia verso destra. I giornali olandesi Het Parool e De Volkstrant lo paragonarono a Mussolini; il Trouw ad Hitler. L'uomo che lo uccise nel maggio del 2002 (un multiculturalista, non un musulmano) sembrò evocare questi giudizi quando spiegò il suo movente: le opinioni di Fortuyn sull'Islam, insistette l'assassino, erano "pericolose".

Forse nessun mezzo di comunicazione occidentale ha manifestato questa abitudine al ribaltamento morale più regolarmente della BBC. Nel 2006, per fare un esempio significativo, l'imam capo di Manchester disse allo psicoterapista John Casson di essere favorevole alla pena di morte per gli omosessuali. Casson rimase sgomento - e la BBC, in un comunicato intitolato imam accusato di insulto "morte ai gay", montò il caso come un tentativo di gettare discredito sull'Islam. La BBC concluse il suo resoconto con alcuni commenti di un portavoce della Commissione Islamica per i Diritti Umani che equiparò l'atteggiamento musulmano verso l'omosessualità a quello di "altre religioni ortodosse come il Cattolicesimo" e lamentò il fatto che concentrarsi su tale questione fosse parte di un tentativo di "demonizzare i musulmani".

Nel giugno 2005 la BBC mandò in onda il documentario dal titolo "Don't Panic, I'm Islamic" che cercava di mostrare come artificiose le preoccupazioni sul radicalismo islamico. Una così "sensazionale mistificazione dell'Islam radicale", come la definì il blogger di Little Green Footballs, Charles Johnson, "contribuì a far addormentare gli inglesi poche settimane prima degli attentati dinamitardi alla metropolitana e agli autobus di Londra" nel luglio 2005. Nel dicembre 2007 emerse che cinque protagonisti del documentario, che avevano partecipato al programma in qualità di innocui "musulmani della porta accanto", erano stati accusati di avere preso parte a quegli attacchi terroristici e che i produttori della BBC, benché a conoscenza del loro coinvolgimento, dopo che gli attacchi ebbero luogo, non avevano riportato alle autorità di polizia importanti informazioni sul loro conto.

L'acquiescenza della stampa alle richieste e alle minacce musulmane è endemica. Quando le vignette su Maometto, pubblicate nel settembre 2005 dal giornale danese Jyllands-Posten in sfida all'autocensura giornalistica dopo l'omicidio Van Gogh, trovarono risposta nelle note manifestazioni di violenza un po' ovunque nel mondo, solo un giornale americano di rilievo, il Philadelphia Inquirer, si unì ai quotidiani Europei Die Welt e El Pais nel ristamparle in segno di solidarietà al diritto di libera espressione. Gli editori che rifiutarono di pubblicare le immagini dichiararono come la loro motivazione fosse il rispetto multiculturale verso l'Islam. Il critico Christopher Hitchens fu di diverso avviso quando scrisse di "conoscere un buon numero di quei preoccupati editori e di poter dire con certezza che il motivo principale per la non pubblicazione delle vignette fosse semplicemente la paura. Un ulteriore esempio di questa nuova condizione di "dhimmità", quale che sia la motivazione, è il principale fumettista norvegese, Finn Graff, che ha spesso raffigurato gli israeliani come nazisti ma che ha recentemente giurato di non voler mai più disegnare nulla che possa provocare l'ira musulmana. L'anno scorso si è verificata un'altra crisi (a seguito della pubblicazione di vignette satiriche), questa volta contro la rappresentazione di Maometto, da parte dell'artista svedese Lars Vilks, disegnato come un cane e che alcuni ambasciatori di Paesi musulmani hanno usato come pretesto per chiedere limitazioni alla libertà di parola in Svezia. La giornalista della CNN Paula Newton suggerì che forse "Vilks avrebbe dovuto sapere" dato il precedente del Jyllands-Posten, come se qualunque artista dovesse stare agli ordini di chiunque lanci minacce di morte. Nel frattempo The Economist dipinse Vilks come un personaggio eccentrico che non meritava di essere preso "troppo sul serio" e commentò favorevolmente che il Primo Ministro svedese, a differenza di quello danese, invitò gli ambasciatori musulmani "per una chiacchierata".

I media più influenti minimizzano regolarmente i resoconti circa le malefatte di fondamentalisti musulmani o ne oscurano la vera natura. Dopo che la nomina a Cavaliere nel 2007 di Salman Rushdie scatenò un'ulteriore ondata internazionale di tumulti islamisti, Tim Rutten scrisse sul Los Angeles Times: "Se vi state chiedendo perché non siete stati in grado di seguire, sulla stampa americana, rubriche ed editoriali a denuncia di tale nonsenso omicida è solo perché non ce ne sono stati affatto". Si considerino pure le rivolte che strinsero d'assedio le periferie francesi nell'autunno del 2005. Tali sommosse furono per lo più l'affermazione dell'autorità musulmana su periferie musulmane e perciò chiaramente jihadiste nella loro natura. Tuttavia passarono settimane prima che molti organi d'informazione americani ne parlassero e, quando lo fecero, minimizzarono l'identità musulmana dei rivoltosi (pochi, per esempio, citarono le grida "Allahu akbar"). Invece, descrissero la violenza come uno scoppio di frustrazione contro una generica ingiustizia economica.

Quando sondaggi o studi su musulmani vengono pubblicati, i media spesso ne stravolgono assurdamente i risultati o li lasciano cadere nel dimenticatoio dopo la prima pubblicazione. Alcuni giornalisti accolsero favorevolmente i risultati di un sondaggio del 2007 condotto dal centro ricerche PEW che mostrava come l'80 per cento dei musulmani americani tra i 18 e i 29 anni d'età fossero contrari agli attacchi suicidi, anche se l'altra faccia della medaglia, e il vero punto della faccenda, era che una percentuale a doppia cifra di giovani musulmani americani li sostenevano. Il Washington Post si rallegrò per come i musulmani americani integrati si opponessero all'estremismo facendo eco a USA Today secondo cui i musulmani americani rifiuterebbero ogni estremismo. Un sondaggio del 2006 del Daily Telegraph mostrò come il 40 per cento dei musulmani britannici volessero la Sharia in Gran Bretagna e tuttavia i giornalisti britannici spesso scrivono come se solo una sparuta minoranza di loro abbracciasse tali opinioni.

Dopo ogni rilevante attacco terroristico dall'11 Settembre in poi, la stampa ha supinamente pubblicato storie su quanto i musulmani occidentali temano "violente reazioni anti musulmane" spostando, così, nettamente, l'attenzione dai reali attentati degli islamisti a quelli immaginari dei non musulmani. Mentre libri di esperti di Islam come Bat Ye'r e Robert Spencer che raccontano verità scomode su jihad e sharia spesso non vengono nemmeno recensiti da giornali del calibro del New York Times, la stampa dominante legittima pensatori come Karen Armstrong e John Esposito le cui sdolcinate rappresentazioni dell'Islam avrebbero dovuto essere discreditate una volta per tutte dopo l'11 Settembre. Il Times descrisse l'agiografia di Armstrong su Maometto come "un buon punto di partenza" per la comprensione dell'Islam; nel luglio del 2007 il Washington Post titolò un articolo di Esposito: "Vuoi capire l'Islam? Comincia da qui".

I principali mezzi d'informazione hanno spesso confezionato sbiaditi ritratti della vita dei fondamentalisti musulmani. Ne è una prova l'appassionato profilo in tre parti che Andrea Elliott fece dell'imam di Brooklyn e apparso sul New York Times nel marzo del 2006. Elliott e il Times cercarono di rappresentare Reda Shata come un eroico costruttore di ponti fra due culture, lasciando i lettori con la confortante convinzione che la crescita dell'Islam in America fosse non soltanto innocua ma positiva, addirittura auspicabile. Benché emergesse continuando a leggere che Shata non parlava inglese, rifiutava di stringere la mano alle donne, voleva proibire la musica e sosteneva Hamas e gli attentati suicidi, la Elliott fece del suo meglio per sottacere tali spiacevoli dettagli e si concentrò su simpatici aspetti personali. "L'Islam gli fu rivelato dolcemente, al ritmo di voce di sua nonna"; "Shata scoprì l'amore 15 anni fa……." "Entrò nel mio cuore", disse l'imam. Il pezzo alla saccarina di Elliott vinse il premio Pulitzer. Quando Daniel Pipes lo studioso del Medio Orientale fece notare che Shata era ovviamente un islamista, uno scrittore del Columbia Journalism Review tacciò Pipes di essere un "destrorso" e insistette che Shata era "un vero moderato".

Questo è ciò che accade in questo nuovo mondo dei media pavido e sottosopra: quelli che se avessero il potere soggiogherebbero gli infedeli, opprimerebbero le donne e giustizierebbero apostati e omosessuali sono "moderati" (moderati essendo, apparentemente, di questi tempi, tutti coloro che non hanno esplosivi intorno alla vita), mentre coloro che osano dire pane al pane sono "islamofobi".

Lo show business è stato almeno altrettanto scandaloso. Durante la Seconda Guerra Mondiale Hollywood ha prodotto gran quantità di film che sostenevano lo sforzo bellico, ma i film e gli show televisivi di oggi, con rare eccezioni, o (si aggirano in punta di piedi intorno ai temi dell'Islam o semplicemente li mistificano). Di quest'ultimo esempio fanno parte due sitcom che debuttarono nel 2007, la Piccola Moschea nella Prateria della Canadian Broadcasting Corporation e Aliens in America del canale CW. Entrambi gli show riguardano storie di musulmani che si confrontano con il bigottismo antimusulmano; entrambi danno per scontato che non esista il problema dell'Islam fondamentalista nell'Occidente, ma solo un problema antislamico.

Gruppi di pressione musulmani hanno attivamente cercato di far sì che film e show televisivi rappresentassero l'Islam come nient'altro che una religione di pace. Per esempio, il Consiglio per le Relazioni Islamico-Americane ha influenzato con successo la Paramount Pictures perché cambiasse i cattivi di "The sum of all fears" (2002) da terroristi islamici a neonazisti, mentre la popolare serie "24" della Fox dopo che alcuni musulmani lamentarono che un episodio rappresentava terroristi islamici, rilasciò comunicati pubblici da brividi che enfatizzavano quanto non violento l'Islam fosse. Alcuni mesi fa, l'attore iraniano-danese Farshad Kholghi notò come, a dispetto del travolgente impatto della controversia sulle vignette in Danimarca, "non un solo film era stato fatto sulla crisi, non un solo spettacolo o monologo teatrale". Ciò è esattamente quanto i jihadisti delle vignette volevano ottenere.

Nell'aprile del 2006 un episodio della serie di cartoni animati South Park ammirevolmente prese in giro l'ondata di autocensura che seguì alla crisi del Jylland-Posten, ma Comedy Central lo censurò sostituendo un'immagine di Maometto con una schermata nera e didascalie esplicative. Secondo il produttore della serie Anne Garefino, i dirigenti del network ammisero onestamente di avere agito in tal modo per paura. "Fummo felici del fatto" disse ad un intervistatore "che non provarono a sostenere che fosse per tolleranza religiosa".

E poi c'è il mondo dell'arte. Gli artisti postmoderni che hanno sempre cercato di turbare e scuotere le coscienze adesso sostengono piamente che l'Islam merita "rispetto". Musei e gallerie hanno silenziosamente tirato giù quadri che potessero turbare i musulmani e hanno messo da parte manoscritti che mostrassero immagini di Maometto. La Whitechapel Art Gallery di Londra ha rimosso da una mostra del 2006 le bambole nude a grandezza naturale dell'artista surrealista Hans Bellmer appena prima dell'inaugurazione; la scusa ufficiale fu "limiti di spazio", ma il curatore ammise che la vera motivazione era la paura che la nudità potesse offendere i vicini musulmani. Lo scorso novembre dopo la cancellazione all'Aja di una mostra di opere d'arte raffiguranti gay vestiti da Maometto, l'artista, Sooreh Hera accusò il museo di aver ceduto a minacce musulmane. Tim Marlow della White Cube Gallery di Londra sottolinea che tale autocensura da parte di artisti e musei è ormai comune benché "molto pochi lo abbiano esplicitamente ammesso". L'artista britannico Grayson Perry, il cui lavoro ha aspramente irriso il cristianesimo, lo ha fatto benché la sua riluttanza non abbia nulla a che vedere con una sensibilità multiculturale. "La ragione per cui non mi sono esposto nell'attaccare l'islamismo nella mia arte" ha dichiarato al Times di Londra, "è perché temo veramente che qualcuno mi tagli la gola".

Intellettuali e accademici liberal di primo piano hanno dimostrato una impressionante disponibilità a tradire i propri ideali quando si tratta di essere concilianti con i musulmani. Già nel 2001, Unni Wikan, esimio antropologo culturale norvegese ed esperto di Islam reagì all'elevata percentuale di stupri musulmani su infedeli ad Oslo esortando le donne a "rendersi conto che viviamo in una società multiculturale e ad adattarvisi". Più recentemente, esperti europei di elevato profilo quali Ian Buruma del Bard College e Timothy Garton Ash di Oxford, pur negando strenuamente di difendere una resa culturale, hanno comunque abbracciato l'idea del "compromesso" che suona molto come un distinguo senza alcuna sostanziale differenza. Nel suo libro "Omicidio ad Amsterdam", Buruma cita favorevolmente il richiamo del sindaco di Amsterdam Job Cohen al "compromesso con i musulmani", inclusi quelli che "consapevolmente discriminano le loro donne". La Sharia contempla il diritto per un uomo musulmano di picchiare e violentare sua moglie, di costringere al matrimonio le sue figlie e di ucciderle se si oppongono. Verrebbe da chiedersi che cosa le donne musulmane immigrate in Europa per scappare a tale barbarie pensino di appelli simili.

Rowan Williams l'arcivescovo di Canterbury e uno dei più noti intellettuali britannici, suggerì in febbraio l'istituzione di un sistema parallelo di Sharia in Gran Bretagna. Dal momento che il Consiglio Islamico per la Sharia giudica già matrimoni e divorzi musulmani nel Regno Unito ciò che Williams si proponeva era, a suo dire, "una più elevata e sofisticata versione di tale istituto, con maggiori risorse". Fortunatamente la sua proposta, povera di dettagli ma ricca di ambiguità accademiche ("Non penso" disse alla BBC "che dovremmo arrivare subito alla conclusione che l'insieme di quella giurisprudenza e pratica giuridica sia in qualche modo fortemente incompatibile con i diritti umani semplicemente perché non si accorda immediatamente con il nostro modo di comprenderla") fu accolta da pubblica indignazione.

Un altro importante sostenitore del compromesso culturale è il professore di Storia e Letteratura Mark Lilla della Columbia University, autore di un saggio, apparso sul New York Time Magazine nell'agosto del 2007, così lungo e sdolcinato e scritto con tale perfetto accademico distacco che molti lettori a fatica si sarebbero resi conto che tracciava un percorso dritto verso la sharia. "La piena riconciliazione dei musulmani con la democrazia liberale non può essere auspicata", scrisse Lilla. Per l'Occidente "l'ordine del giorno è fare i conti con essa, non difendere elevati principi".

Rivelativo, sotto questo aspetto, è il trattamento riservato da parte di Buruma e Gartom Ash alla scrittrice Ayaan Hirsi Ali, forse la più coraggiosa campionessa vivente delle libertà occidentali di fronte all'incalzante jihad, e all'intellettuale europeo musulmano Tariq Ramadan. Siccome Hirsi Ali si rifiuta di scendere a compromessi sulla libertà, Garton Ash l'ha definita una "semplificatrice…..fondamentalista illuminista", così implicitamente paragonandola ai fondamentalisti musulmani che hanno minacciato di ucciderla, mentre Buruma, in diversi articoli del New York Times l'ha dipinta come un'ingenua petulante. (Entrambi hanno recentemente ritrattato in qualche modo). D'altra parte, i professori Buruma e Ash hanno decantato la supposta specchiatezza di Ramadan. Non sono i soli: benché egli non sia l'occidentalizzato intellettuale urbano che sembra - egli rifiuta, infatti, di condannare la lapidazione delle donne adultere e chiaramente confida in un Europa sotto la Sharia - questo nipote di Hassan al-Banna, fondatore della Fratellanza Musulmana e protetto del filosofo islamista Yusuf al-Qaradawi, viene regolarmente elogiato nei circoli benpensanti quale rappresentante delle migliori speranze per una concordia di lungo termine tra musulmani occidentali e non musulmani.

Questa primavera il professore di legge ad Harvard, Noah Feldman, scrivendo sul New York Times magazine brindò per ben due volte alla sharia confrontandola positivamente con la common law inglese e descrivendo l'aspirazione degli islamisti a rinnovare le vecchie leggi come "audacie e nobile".

Accanto alla stampa, all'industria dell'intrattenimento e ad importanti pensatori liberal che rifiutano di difendere le fondamentali libertà dell'Occidente non sorprende affatto che i nostri leader politici siano stati altrettanto pusillanimi. Dopo che un piccolo giornale di Oslo, il Magazinet, ristampò le vignette danesi all'inizio del 2006 i jihadisti bruciarono le bandiere norvegesi e dettero fuoco all'ambasciata norvegese in Siria. Invece di affrontare i vandali, i leader norvegesi se la presero con l'editore del Magazinet, Vebiarn Selbekk, incolpandolo, seppur parzialmente, per il rogo all'ambasciata e facendo pressioni perché chiedesse scusa. Alla fine egli fu costretto a cedere ad una conferenza stampa sponsorizzata dal governo e a strisciare davanti ad un'assemblea di imam il cui leader lo perdonò pubblicamente e lo mise sotto la sua protezione. In quel terribile giorno Selbekk più tardi ammise "la Norvegia ha fatto un grande passo nel concedere che la libertà di parola sia ostaggio degli islamisti". Come se quella capitolazione non fosse abbastanza una delegazione ufficiale norvegese si recò in Quatar a implorare Quaradawi - un difensore degli attentati suicidi oltre che assassino di bambini ebrei - di accettare le scuse di Selbekk. "Incontrare Yusuf al-Quaradawi in tali circostanze" protestò lo scrittore iracheno norvegese Walid al-Kubaisi, era "equivalente a garantire agli estremisti islamici…il diritto ad una consultazione comune su come la Norvegia dovesse essere governata".

La posizione delle Nazioni Unite sulla questione della libertà di parola nei confronti del "rispetto" per l'Islam fu subito chiara - e interamente in disaccordo con i suoi valori fondativi di promozione dei diritti umani. "Non si scherza sulla religione degli altri" protestò Kofi Annan subito dopo l'incidente del Magazinet, facendo eco ai sermoni di innumerevoli imam, "e bisogna rispettare ciò che è sacro per gli altri". Nell'ottobre del 2006, un comitato di discussione delle Nazioni Unite chiamato "Fumetti per la pace", sotto la presidenza del Segretario Generale Shashi Tharoor propose di disegnare "una sottile linea blu delle Nazioni Unite….tra libertà e responsabilità". (Gli americani saranno perdonati per aver pensato che quella linea si scontra frontalmente con il Primo Emendamento.) Nel 2007, per di più, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani fece passare una mozione pakistana che proibiva la diffamazione delle religione.

Altri leader occidentali hanno promosso l'espansione della Casa della Sottomissione, Dar al-Islam. Nel settembre 2006, quando l'insegnante di filosofia Robert Redecker fu costretto a darsi alla macchia dopo aver ricevuto numerose minacce di morte a seguito della pubblicazione di un'editoriale di opinione pubblicato su Le Figaro, il Primo Ministro francese del tempo, Dominique de Villepin, commentò che "ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni - sempreché rispettino gli altri, naturalmente". La lezione da trarre dalla vicenda Redecker, egli aggiunse, era "quanto vigili dobbiamo essere per assicurarci che la gente si rispetti vicendevolmente nella nostra società". Villepin fu superato lo scorso anno dalla sua controparte svedese, Fredrik Reinfeldt, che dopo essersi incontrato con alcuni ambasciatori musulmani per discutere delle vignette di Vilk, fu elogiato da uno di loro, l'algerino Merzak. Bejaoui, per il suo "spirito di pacificazione".

Quando anni dopo l'11 settembre il presidente George W. Bush finalmente riconobbe pubblicamente che l'Occidente era in guerra con il fascismo islamico, la furiosa reazione di musulmani e multiculturalisti lo fecero ripiegare sulla neutra espressione di "guerra al terrore". Il Ministero degli Esteri britannico ha da allora ritenuto tale espressione offensiva e ne ha bandito l'uso ai suoi membri di gabinetto (insieme a "estremismo islamico"). In gennaio il Ministero degli Interni decise che avrebbe descritto il terrorismo islamico, da allora in avanti, come "attività antislamica".

Le assemblee legislative e i tribunali occidentali hanno via via accresciuto lo "spirito di pacificazione". Nel 2005 il Parlamento norvegese, senza alcun dibattito pubblico o copertura mediatica, ha criminalizzato gli insulti religiosi (oltretutto spostando l'onere della prova a carico dell'imputato). L'anno scorso, il più celebrato avvocato di quel Paese, Tor Erling Staff, sostenne che la pena per omicidio d'onore dovrebbe essere inferiore a quella per gli altri tipi di assassinio poiché è arrogante aspettarsi che gli uomini musulmani si conformino alle norme della nostra società. Sempre nel 2007, in uno dei diversi casi in cui magistrati tedeschi giurarono di sostenere la legge tedesca e invece seguirono la sharia, un giudice di Francoforte respinse la richiesta di una donna musulmana per un divorzio rapido da un marito da cui subiva brutali maltrattamenti; dopo tutto, sotto la legge coranica egli aveva il diritto di picchiarla.

Coloro che osano sfidare i nuovi dettami occidentali basati sulla sharia e sostengono le loro opinioni in alcuni paesi ora rischiano perfino di venire perseguiti. Nel 2006 la leggendaria scrittrice Oriana Fallaci, malata terminale di cancro, fu processata per aver denigrato l'Islam; tre anni prima dovette difendersi da un'accusa simile in un tribunale francese. (La Fallaci fu sostanzialmente prosciolta in entrambi i casi). Più recentemente le province canadesi costrinsero l'editore Ezra Levant e il giornalista Mark Steyn ad affrontare tribunali per i diritti dell'uomo, il primo per aver ristampato le vignette del Jylland Posten, il secondo per aver scritto in modo critico sull'Islam sul Maclean.

Anche quando hanno ostacolato i critici dell'Islam, le autorità occidentali hanno, comunque, sempre onorato i sostenitori della jihad. Nel 2005 la regina Elisabetta insignì del titolo di Cavaliere Iqbal Sacranie del Cosiglio Britannico Musulmano, colui che aveva richiesto la condanna a morte per Salman Rushdie. Sempre quell'anno, il sindaco di Londra Ken Livingstone assurdamente elogiò come "progressista" Qaradawi e, in risposta agli attivisti gay che osservarono che Qaradawi aveva difeso la pena di morte per gli omosessuali, pubblicò un lungo dossier che cercava di ripulire la reputazione dello studioso sunnita e di infangare quella degli attivisti. Tra tutti i leader occidentali, tuttavia, pochi furono all'altezza di Piet Hein Donner, che nel 2006, in qualità di Ministro della Giustizia olandese, disse che se gli elettori volevano portare la sharia in Olanda, dove i musulmani sarebbero stati presto la maggioranza, "sarebbe stato vergognoso dire: "Questo non è permesso".

Se non trovate scioccante la sottomissione ("dhimmificazione") dei politici, considerate almeno il livello a cui le forze dell'ordine hanno ceduto alla pressione islamista. L'anno scorso quando "Moschea Undercover", un insolitamente franco reportage su Channel 4, mostrò predicatori musulmani "moderati" chiedere di picchiare mogli e figlie e uccidere gay e apostati, la polizia scattò in azione denunciando l'emittente alle autorità della comunicazione, Ofcom, per provocazione all'odio razziale. La reazione della polizia, come James Forsyth notò su Spectator, "rivelò un atteggiamento mentale per cui la denuncia di un problema viene vissuta come un problema maggiore del problema stesso". Alcuni giorni dopo il programma, in assoluta indifferenza rispetto alla realtà denunciata, il commissario di polizia metropolitana Sir Ian Blair rese noti i piani per condividere l'intelligence antiterrorismo con i leader delle comunità musulmane. Tali piani furono fortunatamente accantonati.

Il riformista musulmano canadese Irshad Manjii notò che nel 2006, quando 17 terroristi furono arrestati a Toronto sul punto di infliggere al Canada "il suo 11 settembre", "la polizia non fece nemmeno menzione che avessero a che fare con l'Islam o con i musulmani, non una sola parola su questo". Quando, dopo l'omicidio Van Gogh, un artista di Rotterdam realizzò un murale raffigurante un angelo con le parole non uccidere, la polizia, temendo di far torto ai musulmani, cancellò l'opera (e il video della sua distruzione). Nel luglio 2007 un appello televisivo già programmato dalla polizia britannica per favorire la cattura di uno stupratore musulmano, fu cancellato per evitare "reazioni razziste". E, in agosto, il Times di Londra riferì che uomini "asiatici" (codice britannico per "musulmani") nel Regno Unito avevano rapporti sessuali con, probabilmente, "centinaia di ragazzine bianche appena dodicenni" ma che le autorità non sarebbero intervenute per timore di "turbare le relazioni interrazziali". Tipicamente, né il Times né funzionari governativi riconobbero che il disprezzo degli uomini "asiatici" per le ragazzine "bianche" non era questione di razza ma di fede.

Anche i leader militari non sono immuni a tutto questo. Nel 2005, l'editorialista Dianne West notò che il comandante delle truppe americane in Iraq, Tenente Generale John R. Vines, educava i suoi uomini all'Islam dando loro una lista di letture che "mistificava jihad, dhimmità e leggi della sharia attraverso i lavori di Karen Armstrong e John Esposito"; due anni più tardi, la West sottolineò la scarsa propensione di un consigliere per la contro-insorgenza in Iraq, il Tenente Colonnello David Kilcullen, a nominare la jihad. Nel gennaio 2008, il Pentagono licenziò Stephen Coughlin, il suo esperto interno di sharia e jihad poiché, in base ad alcuni resoconti, il suo riconoscimento che il terrorismo era motivato dalla jihad si era inimicato un influente consigliere musulmano. "Che le analisi di Coughlin potessero anche solo essere considerate "controverse", scrisse Andrew Bostom, redattore di "The Legacy of Jihad", " è indice patologico del marciume intellettuale e morale che affligge i nostri sforzi di combattere il terrorismo globale". (Forse grazie anche alla pubblica indignazione che ne seguì, i funzionari governativi annunciarono in febbraio che Coughlin non sarebbe stato cacciato dopo tutto, ma piuttosto destinato a una diversa posizione del Dipartimento della Difesa).

Tanto basti. Dobbiamo riconoscere che i jihadisti culturali odiano le nostre libertà perché tali libertà sfidano la sharia che essi sono determinati ad imporci. Finora essi hanno avuto molto meno successo nel conculcare la nostra libertà di parola e altre libertà negli Stati Uniti che in Europa, grazie, in non piccola parte, al Primo Emendamento. Tuttavia l'America si sta dimostrando suscettibile in modo crescente alle loro pressioni.

La questione chiave per gli occidentali è dunque: amiamo le nostre libertà almeno quanto i jihadisti le odiano? Molti uomini liberi, purtroppo, si sono abituati a tal punto alla libertà e alla posizione di comodo di non doverla sostenere, che sono incapaci di difenderla quando viene messa in pericolo o, addirittura, in molti casi, di riconoscere quando essa viene messa in pericolo. Quanto ai musulmani che vivono in Occidente, diversi sondaggi indicano che molti di loro, sebbene non attivamente coinvolti nella jihad, sono disposti a stare a guardare passivamente, alcuni favorevolmente, mentre loro fratelli nella fede trascinano il mondo occidentale entro i confini della Casa della Sottomissione, Dar al-Harb. Non possiamo certo aspettarci che essi prendano posizione a favore della libertà se, noi per primi, non lo facciamo(Cfr. © City Journal. Bruce Bawer è autore di "Mentre l'Europa dorme: come l'Islam radicale sta distruggendo l'Occidente dall'interno". Il suo blog è BruceBawer.com.).

Shariʿa arabo: شريعة, sharīʿa è un termine generico utilizzato nel senso di "legge" che indica due diverse dimensioni, una metafisica ed una pragmatica. Nel significato metafisico, la sharīa, è la Legge di Dio e, in quanto tale, non può essere conosciuta dagli uomini. In questo senso, il fiqh, la scienza giurisprudenziale, rappresenta lo sforzo esercitato per individuare la Legge di Dio, e quindi la letteratura legale prodotta dai giuristi (faqīh, pl. fuqahāʾ) costituisce opera di fiqh, non di sharīʿa.

Fonti della sharī'a

Fonti della legge islamica sono generalmente considerate il Corano, la Sunna (ovvero gli hadith del Profeta), il consenso dei dotti (ijmā) e l'analogia giuridica (qiyās), la sharīʿa accetta solo le prime due fonti in quanto divinamente prodotte o ispirate.

La pena di morte nella sharīa [

Secondo gli ʿulamā, la Sharia consentirebbe la pena di morte in quattro casi: omicidio ingiusto di un musulmano, adulterio, bestemmia contro Allah (da parte di persone di qualunque fede) e apostasia (ridda) ciò nonostante viene invocata regolarmente per giustificare i casi di condanna a morte per omosessualità in stati come l'Iran, la Nigeria o l'Arabia Saudita.

Piccola bibliografia

A. Cilardo, Teorie sulle origini del diritto islamico, Roma, IPO, 1990.

J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Torino, Fondazione Agnelli, 1995, p. 121 *Idem, An Introduction to Islamic Law, Oxford, OUP, 1955, traduz. dall'inglese a cura di G. M. Piccinelli.

D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano mālichita con riguardo anche al sistema sciafiita, Roma, IPO, 1926, 2 voll.

E. Tyan, L'organisation judiciaire en pays d'Islam, Leiden, E.J. Brill, 1960.

N. J. Coulson, A History of Islamic Law, Edinburgh 1964. (traduz. francese: Histoire du Droit Musulman, Paris, 1995).

Maria de Falco Marotta, Religioni, Culture, dialogo, Edizioni All'Apollinare, 2001.

Maria de Falco Marotta

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Editoriali