GIUSTIZIA: GIUSTIZIA GIUSTIZIALISMO PENA PERDONO

di Angelo Schena (x)


Mary Lupo, il giudice del processo a William Smith Kennedy, accusato di stupro nei confronti di Patricia Bowman, ebbe a dire "la legge è il debole tentativo dell'umanità per convivere e altro non abbiamo".

Per consolidare la società è stata creata la legge che, nella sua astratta e pura accezione, potrebbe far pensare ad un'entità metafisica mentre, in realtà, è un insieme di regole che tentano di far convivere gli uomini in forma organizzata e di garantire la concordia fra i consociati.

Il mezzo per far rispettare la legge, punendo i trasgressori, è la giustizia che, a sua volta, risponde ad un insieme di regole e quindi di leggi.

Come dire che il moto che unisce le due entità, legge e giustizia, è circolare, perché l'una è in funzione dell'altra: la legge si prefigura di organizzare, in maniera giusta, la società degli uomini, mentre la giustizia ne garantisce legalmente l'esistenza.

La legge può essere buona o cattiva a seconda degli obiettivi che persegue e quindi può essere condivisa o meno da singole categorie di cittadini.

Coloro i quali non condividono l'oggetto di tutela e le finalità di una legge, tenteranno di modificarla oppure si adopereranno per trasgredirla e violarla.

In questi ultimi casi (come in ogni caso di violazione) danneggiano sicuramente altri soggetti, che rappresentano però la maggioranza dei consociati, posto che l'obiettivo della legge è quello di porsi come regola generale.

A quel punto si attiva il meccanismo della giustizia, che dovrebbe punire esemplarmente il trasgressore e ripristinare, nella coscienza comune, il rispetto della legge ed affermare, nel contempo, lo stato di diritto.

Per giustizia bisogna però intendere due categorie: quella morale che si identifica nell'affermazione del bene, del giusto e quella giuridica che si identifica nei mezzi approntati dalle regole, e quindi dalle leggi, per affermare lo Stato di Diritto.

Non parlerò della giustizia in senso morale, perché argomento che è meglio lasciare agli studiosi di altre discipline, quali la filosofia e la teologia.

Proprio Emmanuel Kant amava rappresentarsi con "il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me".

Ma quello che interessa i cittadini, ed a maggior ragione quelli di uno stato democratico, è la legge comune che li organizza e li consocia nella convivenza pacifica e disciplinata.

Il grande scudo con cui la società si protegge dai suoi stessi consociati che si ribellano alla legge, è la giustizia.

Lo scudo è pur sempre un elemento materiale e non astratto: è formato da uomini, strutture e mezzi organizzati per far rispettare la legge, punendo il trasgressore.

Lo strumento con cui perseguire tale fine è il processo "legale", che si fonda sulle prove raccolte.

Nel processo si attua la dialettica tra accusa e difesa ed il Giudice emette, attraverso la sintesi, un giudizio e commina una pena in caso di condanna.

Attraverso il giudizio, il giudice interpreta la volontà della legge e stabilisce se vi sia stata violazione; soprattutto valuta le prove e decide, in base ad esse, se vi sia la colpevolezza o no.

Questo vale per ogni tipo di violazione, da quelle di minor conto a quelle che invece creano un vero e proprio allarme sociale e impongono un più difficile vaglio del fatto, onde emettere un giudizio che non sia, a sua volta, ingiusto. E' infatti meglio un colpevole libero che un innocente in galera.

Il giudizio richiede un processo formativo di valutazioni e conclusioni logico giuridiche, di estrema difficoltà: è forse l'esercizio intellettuale più difficile per chi si appresta ad emulare Dio che, unico, può emettere un giudizio infallibile. Il giudizio degli uomini è ovviamente più limitato ed è soggetto all'errore.

Tuttavia lo sforzo per scongiurare l'errore deve essere enorme.

A tal fine occorrono i molteplici gradi del giudizio, attraverso i quali diversi giudici esaminano lo stesso caso e si pronunciano nella più assoluta ed inviolabile autonomia. Proprio per questo il giudizio può risultare ondivago e lasciare, nella comune opinione, un certo senso di sconcerto.

Emblematico è quello che è successo per il caso Sofri che, dopo otto anni e sette gradi di giudizio, con opposti esiti, si è concluso con la condanna degli imputati a 22 anni di reclusione.

In questi sette gradi di giudizio si sono avvicendati numerosi giudici, che si sono contraddetti a vicenda, fino all'ultima parola, posta dalla Suprema Corte di Cassazione, ormai definitiva, salvo eventi eccezionali (vi sono già stati straschichi per la procedura di revisione).

E' una parola durissima, giunta dopo 25 anni, che si rivolge a uomini molto diversi dagli uomini di 25 anni prima.

Ma anche questa è una parola di legge.

Soprattutto è una parola data con le garanzie del processo e delle sue regole.

Purtroppo queste regole, spesse volte, vengono meno sotto la spinta della sete di giustizialismo anziché di giustizia.

Proprio negli ultimi anni abbiamo assistito a forme sommarie di giudizio, segno inequivocabile di inciviltà giuridica; inciviltà che si è manifestata nel nostro Paese, considerato culla e patria del diritto.

Mi riferisco alle troppe sentenze emesse dall'opinione pubblica prima del processo, sulla base della sola informazione di garanzia. Mi riferisco ai casi nei quali, specie per i fatti di maggiore gravità, si vuole a tutti i costi individuare un colpevole. Mi riferisco all'uso strumentale della confessione e del pentitismo, da parte dei pubblici ministeri e degli stessi giudici.

Basta leggere Pietro Verri, Beccaria, Filangieri e addirittura Hobbes, per capire che il colpevole deve essere condannato, ma deve esserlo, in via di principio, in base alle prove raccolte dall'accusa e non già cercando in un modo o in un altro di "estorcere" la confessione (che ci riporta ai tempi dell'inquisizione), oppure cercando (e mantenendo) un pentito che si presti a rivelare, ad orologeria, le sue verità, più o meno interessate.

Allo stesso modo è stata indiscriminatamente attribuita la patente di "ladro" in alcuni episodi di tangentopoli, mentre l'indagato ha finito per essere assolto dopo il giusto processo, oppure, in episodi più recenti, vengono subito sospettati cittadini extracomuitari per efferati delitti maturati in ben diverso ambiente.

Questa spirale, creata per un infausto connubio fra giustizia e media, ha trasformato i cittadini in tante "tricoteuses" che, sferruzzando sotto i palchi del Terrore, gridavano "Vive la Republique" ad ogni testa mozzata.

Allo stesso modo gli spettatori dello spettacolo giustizia, comodamente seduti sul sofà di un buon salotto, si scagliano contro l'imputato di turno, che appare sugli schermi televisivi.

Il processo disciplinato dal codice si è trasformato così in un processo mediatico che risponde alla ferrea logica della spettacolarità e dell'audience, inducendo un comportamento giustizialista nella gente: niente di più terribile ed esecrabile.

Il cattivo, il ladro, il delinquente è sempre l'altro, mentre io sono colui che può giudicare, perché la televisione o i giornali mi attribuiscono questo ruolo, incitandomi le passioni della rabbia, della vendetta, del castigo: tutto ciò che più dovrebbe essere alieno al senso di giustizia e di rigore del giudicare.

Il giudizio, in caso di condanna, comporta l'irrogazione di una pena.

La pena è quella prevista dalla legge, poiché, come dicevano i latini, "nullum crimen, nulla poena, sine lege".

Lo scopo della pena, nell'accezione moderna, non è quello di affliggere il condannato, bensì di rieducarlo e redimerlo.

In quest'ottica sono state promulgate delle leggi (ad. es. la Legge Gozzini), che mirano a temperare la durezza della pena, introducendo dei correttivi premiali per la buona condotta tenuta nel periodo di carcerazione.

Tuttavia il principio rimane quello dell'applicazione di una pena quale conseguenza della condanna.

Spetta al giudice trovare la misura giusta, tenuto conto di svariati correttivi (attenuanti ed aggravanti) nella determinazione della pena da scontare.

La pena è l'ultimo anello di una catena che inizia con il processo di primo grado, cui seguono le impugnazioni e gli altri gradi del giudizio, fino al passaggio in giudicato della sentenza.

Solo in questo momento la pena diventa definitiva ed il reo deve scontarla.

Purtroppo vi è la possibilità di abusare della pena ancora prima del processo, attraverso l'applicazione delle misure cautelari.

Ben inteso, dette misure sono previste dalla legge, ma l'uso che ne viene fatto è, in molti casi, distorto ed inutile.

I presupposti per la loro applicazione, invece di essere eccezionali e assolutamente fondati, tendono ad essere forzati attraverso superficiali ed acritiche valutazioni.

Alcune volte, purtroppo, il presupposto della carcerazione preventiva è quello di indurre l'indagato a confessare.

In tali casi, però, la confessione è ottenuta con violenza o con lusinghe. Quindi è una confessione estorta, condizionata da motivazioni e coercizioni psicologiche, che la rendono sicuramente inattendibile.

Proprio la nostra legge, sul punto, è ancora lacunosa e troppo indulgente al sacro furore di un inquirente che mira ad ottenere la "regina" delle prove, come erroneamente si ritiene la confessione, con ogni mezzo e quindi anche con la privazione della libertà.

Occorre un maggiore rigore sul punto perché, troppo spesso, è capitato che chi ha subito la carcerazione preventiva, sia poi stato assolto nel processo.

Niente di più incivile e contrario ai principi costituzionale di tutela della libertà e della dignità dell'uomo.

Dunque meno carcerazione preventiva e più processi rapidi, fondati sull'esame delle prove raccolte, dopo di che è giusto, in senso giuridico e morale, che il condannato sconti la pena inflittagli.

Nel nostro Paese sta invece crescendo, in misura proporzionale alla sete di giustizialismo, la voglia di perdono; come dire che questa sete trova il suo rimedio nella melassa del perdono.

Prova ne sia che, da tempo, almeno a partire dai progetti di legge contenuti nel c.d. pacchetto Flick (ex Ministro Guardasigilli), si tenta di introdurre sistemi alternativi alla pena effettiva.

Nel corso del tempo sono stati proposti altre forme, misure, istituti giuridici che fronteggiassero l'emergenza criminalità, aggravatasi con l'affermarsi del fenomeno dell'immigrazione.

Oggi, alla fine di questa legislatura, assistiamo al varo di numerose nuove leggi, alcune delle quali (competenza penale del giudice di pace e pacchetto sicurezza) tentano nuovamente di porre rimedio a situazioni emergenziali, con criteri disomogenei e non strutturali, di tal che il rimedio può risultare ancora peggiore del male.

Il ricorrere a provvedimenti non radicali, per far fronte all'emergenza, si rivela, ancora una volta, inadeguato, perché richiede costi troppo elevati per conseguire obiettivi di modesta entità.

Stravolgere il principio che chi delinque deve essere punito con la pena stabilita dalla legge, equivale ad ingenerare una sorta di senso dell'elusione e quindi ad alimentare il senso dell'impunità, facendo venir meno l'effetto deterrente della pena, con conseguenze sicuramente negative e sfavorevoli per la convivenza sociale.

Per non dire dell'offuscamento del processo-garanzia, che, evitato grazie alla possibilità allargata di ricorrere ai riti alternativi, perderà il suo ruolo di strumento imparziale per risolvere i conflitti intersoggettivi tra lo Stato-collettività e i singoli cittadini sulla fondatezza della pretesa punitiva.

Detta pretesa resterà solo sulla carta perché, se la condanna concordata resterà entro i limiti stabiliti per legge, il condannato non sconterà la pena.

In poche parole la condanna si tramuterà in perdono ed il perdono in licenza o comunque esempio per commettere altri reati.

Ancora una volta, con rimedi emergenziali, si cerca di risolvere problemi che sono invece strutturali e che andrebbero affrontati con ben altri mezzi.

Senza aver la pretesa di indicare la soluzione salva-gustizia, mi sembra che la strada migliore per risolvere gli annosi problemi della lentezza dei processi, sia quella di procedere ad una drastica depenalizzazione di tutti quei comportamenti umani (e sono infiniti, disseminati nelle decine di migliaia di leggi vigenti) che nella coscienza collettiva non vengono in alcun modo visti con disvalore sociale, lasciando invece le sanzioni penali (reclusione ed arresto) soltanto per quei casi che, effettivamente, il pensare collettivo ritiene siano disdicevoli e contrari al senso comune di giustizia.

Con una seria e consistente depenalizzazione i processi diminuirebbero notevolmente di numero, potrebbero essere celebrati in tempi rapidi (liberando i giudici dalle migliaia di procedimenti per fatti irrilevanti sotto il profilo sociale) e la pena riacquisterebbe in pieno il suo valore deterrente, anche sotto il profilo della certezza della sua esecuzione.

(x) L'avv. Angelo Schena è nato a Sondrio nel 1950. Dopo aver frequentato il Liceo Ginnasio Giuseppe Piazzi e conseguito la laurea in Giurisprudenza nel 1974 all'Università Cattolica (svolgendo nel contempo il servizio militare tra i "carristi trasmettitori"), inizia la sua attività nello studio del padre, avv. Arturo, già Sindaco di Sondrio. Procuratore legale nel 1977, Avvocato nel 1983, Cassazionista nel 1991, esercita a Sondrio la professione forense. Presidente dell'Ordine degli Avvocati, è Presidente del CAI Valtellinese di Sondrio ed ha collaborato a diverse iniziative di volontariato. Fra gli sport, ancora praticati, sci, tennis, alpinismo e il volo.

 


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