La mossa politica di Renzi vi piace?

di: Maria de falco Marotta

Se non altro, l’operazione messa in moto da Matteo Renzi si mostra esplicitamente per quel che è: un’operazione di potere. È lo stesso Renzi a dare, della sua uscita dal Partito democratico, una spiegazione il cui perimetro corrisponde a quello dei propri interessi.
Nella pagina e mezzo di intervista a Repubblica con cui ha annunciato la sua decisione, non c’è infatti neppure una riga che spieghi se la scissione è dovuta a ragioni di natura politica. Non c’è una riga in cui si racconti l’idea di società verso la quale la nuova formazione renziana si muoverà, nulla che disegni un orizzonte ideale, niente di niente. Molto, invece, c’è su tattica e questioni personali.
Ora, dentro e fuori il Pd, tutti o quasi stanno provando a immaginare cosa potrebbe accadere. Si capirà presto, mentre si avvicina la Leopolda, la manifestazione renziana prevista a Firenze dal 18 al 20 ottobre. Intanto si fa la conta dei parlamentari, si scommette sulle conseguenze che la scissione potrebbe avere sul Pd, sull’accordo con il Movimento 5 stelle e sul governo appena formato. Perfino sul centrodestra. Ma non è facile fare previsioni.
Quinta colonna renziana
In un primo momento, molto dipenderà dal numero dei parlamentari che effettivamente seguiranno Renzi. E molto dipenderà soprattutto dal comportamento che terranno quei renziani che invece hanno annunciato di voler restare nel Pd. Ci si chiede in particolare se la loro fedeltà al partito resterà intatta o se invece, già da queste ore, praticheranno una sorta di doppia obbedienza.
Ci si chiede, insomma, se la loro decisione di restare al fianco di Nicola Zingaretti non nasconda l’intenzione di trasformarsi in una quinta colonna renziana nel Pd, cosa che consentirebbe a Renzi un’ulteriore capacità di manovra. La domanda sorge soprattutto in relazione ad alcuni tra i renziani rimasti al Nazareno. Su tutti, il capogruppo al senato, Andrea Marcucci, considerato il delicato ruolo che ricopre e i numeri non certissimi sui quali può contare la maggioranza a palazzo Madama.
Dopo aver spinto il Pd tra le braccia dei cinquestelle, la scissione , sebbene per molti incomprensibile e spregiudicata, potrebbe regalare a Renzi quello spazio che nel partito ormai faticava a trovare. È infatti opinione comune che egli abbia fatto la sua mossa per ritagliarsi – almeno per il momento, ma sarebbe solo l’inizio – un ruolo da ago della bilancia nella vita del governo, un po’ come un tempo fu Bettino Craxi, sebbene lo stampo della neoformazione renziana sia apertamente postdemocristiano.
Visto dal centrodestra
Almeno da questo punto di vista, l’idea che l’operazione possa essere “un bene per tutti” – sono parole dello stesso Renzi – potrebbe non essere smentita dai fatti, imponendo quanto meno un chiarimento del quadro politico. Al Pd sarebbe restituita una fisionomia più spiccatamente di centrosinistra mentre la formazione renziana si posizionerebbe al centro. È difficile però sostenere che ciò che sta accadendo in queste ore possa contribuire a stabilizzare il quadro politico. Semmai, è vero il contrario.
C’è poi da considerare che la scissione potrebbe innescare alcune reazioni anche nel centrodestra. Non è un mistero che Renzi possa pescare nello stesso mare di Forza Italia che, per di più, non vive un momento particolarmente felice, tanto che da quelle parti si avverte una certa agitazione. A proposito degli equilibri a destra, c’è però un punto che merita più degli altri di essere tenuto in considerazione, ed è un punto sul quale l’ex segretario del Pd è stato molto chiaro. Riguarda Matteo Salvini.
“Voglio passare i prossimi mesi a combattere contro Salvini”, ha detto Renzi. Lo ha detto con il tono di chi sta indicando un obiettivo strategico. Non ha indicato un orizzonte ideale, non ha dato riferimenti politici. Ha individuato un nemico. Salvini, appunto. È così che funziona in questa seconda repubblica bipolare.
L’individuazione del nemico sopperisce alla vaghezza degli obiettivi, eccita la militanza, ha il vantaggio non indifferente di essere utile a se stessi e anche al proprio nemico dichiarato, dato che la polarizzazione consente di occupare facilmente l’intero spazio politico disponibile, relegando gli altri al ruolo di comparse. Se è così, a maggior ragione a un Salvini indebolito dal disastroso tentativo di prendersi tutto, non può certo dispiacere la situazione che si è creata tra i suoi avversari.
Quanto peserà lla scissione di Matteo Renzi sul Pd e sul governo?
Per settimane tutti i leader del Partito democratico – da Nicola Zingaretti a Matteo Renzi, Andrea Marcucci e Andrea Orlando – hanno lavorato fianco a fianco, uniti come non mai negli ultimi cinque anni, per creare la coalizione con il Movimento 5 stelle. E sono anche riusciti a tenere insieme la squadra – al solito litigiosissima – dei democratici.
Era troppo bello per essere vero. Infatti Renzi ha trovato un modo assai originale per festeggiare la ritrovata unità. Appena c’è stato il giuramento del governo, e quello di viceministri e sottosegretari, l’ex presidente del consiglio ha annunciato che lascia il Pd, formando subito gruppi parlamentari separati, creando poi un nuovo movimento politico.
A prima vista è una bella opera di teatro dell’assurdo. Per mesi proprio Renzi aveva promesso fuoco e fiamme, inclusa la scissione del partito, se Zingaretti avesse aperto anche solo cautamente ai cinquestelle. Poi un bel giorno di agosto – Matteo Salvini aveva appena decretato la crisi del governo guidato da Lega e M5s – Renzi si sveglia e decreta la svolta a 180 gradi, tirandosi dietro un riluttante Zingaretti: tutti uniti, Pd e M5s, per salvare l’Italia da Salvini. E guai a non fare questa coalizione.
Dichiarazioni e indiscrezioni
Renzi ha avuto quello che voleva. Per ringraziare se ne va regalandoci forse la prima scissione di un partito argomentata non da conflitti insormontabili su con chi allearsi o su quali politiche seguire al governo, ma da considerazioni alquanto generiche sulla natura di quel partito che ormai gli sta stretto, troppo stretto.
Non gli piace il Pd “organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo”, ha detto in un’intervista al quotidiano La Repubblica.
Questo non vuol dire che l’uscita di Renzi dal Pd sia un atto insensato
Avrebbe invece voluto il partito sognato al momento della sua fondazione nel 2007, “come grande intuizione di un partito all’americana capace di riconoscersi in un leader carismatico”. E non si fa molta fatica a indovinare quale “leader carismatico” piacerebbe a Matteo Renzi.
Potremmo liquidare il tutto tornando sulle indiscrezioni che giravano a Roma nei giorni della svolta repentina di Renzi a favore della coalizione con il M5s. Voleva questa soluzione, si diceva, solo perché eventuali elezioni anticipate a ottobre-novembre lo avrebbero messo fuori gioco, togliendogli il tempo per la scissione e per far fronte a liste elettorali del Pd depurate dai renziani. Con la scissione messa in atto ora il politico fiorentino non fa che confermare questi retroscena.
Due partiti in lotta
Tuttavia, questo non vuol dire affatto che l’uscita di Renzi dal Pd sia un atto insensato. Fin dall’inizio il Partito democratico si è davvero presentato come “un insieme di correnti”, come accusa lui, invece che come una comunità politica. Sono rimasti famigerati i famosi “caminetti” tra capocorrente ai tempi di Veltroni e Bersani: caminetti in cui si decidevano tutte le questioni rilevanti al di fuori degli organi del partito.
Le cose sono peggiorate quando Renzi nella veste di “rottamatore” ha lanciato la sua offensiva per conquistare la leadership del Pd, diventando nel dicembre del 2013 segretario del partito e nel febbraio del 2014 capo del governo. Da allora sotto al tetto del Pd hanno convissuto due partiti, armati l’uno contro l’altro, tenuti insieme da sospetti, da sgambetti e da odio reciproco.
Renzi oggi si presenta come povera vittima di queste dinamiche – “fuoco amico”  ma ha avuto la sua parte attiva. Era lui, una volta diventato segretario del Pd, che non intraprendeva nessun atto per coinvolgere le minoranze dell’ex “ditta” bersaniana nella gestione del partito, puntando invece sulla loro emarginazione e umiliazione, come dimostravano quel “Fassina chi?” rivolto a Stefano Fassina, o i sarcasmi contro Gianni Cuperlo, a suo tempo presidente del Pd, che puntualmente rassegnò le dimissioni.
Sia come sia: al di là delle questioni politiche da anni ormai i conflitti nel Pd hanno una forte connotazione psichiatrica. E forse questa vecchia coppia incurabilmente inacidita di renziani e antirenziani ha tutto da guadagnare da una separazione ufficiale.
Anche la crisi di governo appena conclusa è stata la dimostrazione lampante che già erano separati in casa: Renzi parlava apertamente dei “suoi” deputati e senatori, facendo capire che il loro voto non veniva affatto orientato dai voleri degli organi di partito, ma veniva deciso all’interno della corrente, in ultima analisi da lui.
Meglio una fine con terrore che il terrore senza fine, decreta un proverbio tedesco. Del resto cambierebbe poco per la salute della coalizione appena varata: con o senza l’ufficializzazione della scissione, Renzi è, e sarà sempre, in grado di staccare la spina al governo Conte (Cfr: quotidiani italiani e imternazionali nonché Repubblica giornale online).
 

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