I racconti di Cristina: 10 - Gita Scolastica Numero Due. Nizza

di Cristina Cattaneo

C’è chi arriva all’insegnamento perché tale è l’amore che ha
verso i bambini che non può concepire una vita lontana da loro.
Alcuni di noi hanno forse avuto la fortuna di imbattersi in una
maestra, un professore, una “tata” così, sempre circondata da
una folla di piccoli ammiratori.

Altri ci arrivano per eliminazione, dopo aver scartato tutte le
altre possibilità. Altri per caso. Altri perché essendo
competenti in una disciplina pensano che insegnare sia lo sbocco
naturale.

Per me è stato un po’ così. Conoscevo l’inglese e mi piaceva
tanto, mi sembrava quindi logico cercare di trasmettere quanto
sapevo anche a qualcun altro e soprattutto farglielo piacere. In
questo sono stata aiutata anche dal fatto che l’inglese è la
lingua ideale da insegnare, soprattutto ai principianti. Si
hanno presto dei risultati tangibili.

Avevo fatto i conti senza l’oste. Insegnare a bambini e ad
adulti è una cosa. Agli adolescenti è un’altra. Insegnare a
quattordici-quindicenni all’inizio per me è stato un trauma. A
molti ragazzi l’inglese non interessava. Non interessava
proprio. Non gliene poteva importare meno. Ma come, se io fresca
di corsi di aggiornamento, facevo di tutto per renderlo
divertente?

Non avevo capito niente.

Ci sono voluti anni.

Adesso ho capito che è più importante che mi diverta io. Ho
capito che devo diventare una ragazzina anch’io, mettermi nei
panni dei ragazzi, mettermi al loro livello. Devo anche credere
fermamente nella mia autorità.

Io sono importanteee!

Non devo avere dubbi in proposito.

Come potevo pretendere che mi ubbidissero, che mi temessero, se
ero la prima io ad essere anarchica, a non avere fiducia in me
stessa, a odiare la disciplina imposta, le regole inutili?

Adesso ho imparato a far le facce truci, a mettere le note sul
diario, a non impietosirmi troppo, a far finta di esser severa.
In realtà diventando io sempre più vecchia vedo i miei scolari
sempre più piccoli, sempre più bambini, e mi fanno tenerezza, a
parte qualcuno che vorrei strozzare…

Certo non sarò mai come Torazzi, lui è proprio il maestro nato,
i ragazzi gli vogliono un gran bene, lui nella propria autorità
ci crede davvero. Sembra che abbia anche insegnato al suo cane a
non calpestare le aiuole dell’orto. Io ho capito che per andare
d’accordo con lui devo stare un gradino sotto e dirgli sempre di
sì.

Sono stata quindi molto contenta quando ho saputo che sarebbe
venuto in gita con noi. Il capo gita sarebbe stato lui
naturalmente, noi il gregge. Ero al sicuro.

Per anni nessuno mi ha mai chiesto di andare ad accompagnare i
ragazzi in una passeggiata di due giorni. Era chiaro che non ero
affidabile, o forse avevo sempre trovato scuse plausibili. Ma
ormai comincio ad essere un’anziana, ho più ore di insegnamento,
spesso sono anche docente di classe di quarta, insomma, non
posso più esimermi.

Così quando qualche anno fa sono stata incaricata di
accompagnare le quarte a Montecarlo con pernottamento a Nizza,
ho fatto buon viso a cattiva sorte e mi sono preparata al
peggio. La cosa che mi spaventava di più era la notte. Io sono
una di quelle persone che se non dorme sta male tutto il giorno
dopo, e quando mi devo alzare presto non riesco proprio a
dormire la notte prima. Questo voleva dire due giorni come un
fantasma addormentato, proprio come Paperino quando ha le
palpebre a mezz’asta e gli occhi tutti traversati da
screpolature rosse, come se stessero per rompersi. Ecco io
quando non dormo sono così.

Non solo, ho sempre odiato le gite collettive in autobus, tipo
dopolavoro aziendale. Se ne vedono sull’autostrada di questi
pullmann che scaricano turisti stravolti che si precipitano
prima verso le toilettes, poi verso il bar e si fanno avanti a
colpi di gomito per un caffè o un bicchier d’acqua. Per non
parlare dei cori di montagna al ritorno. La Resi ci va spesso,
sembra che durante il viaggio verso la meta prefissata,
Caravaggio, Sotto il Monte, Livigno, Sirmione, Pisa, Verona,
Sant’Antonio di Padova, vendano anche delle pentole o delle
coperte e poi ti regalino anche un pacchetto di pasta, un chilo
di caffè e un biglietto della prossima lotteria. E’ un mondo in
cui mi sento parecchio a disagio.

Odio infatti la folla e i posti affollati. Odio il chiasso, gli
schiamazzi, gli allegroni che raccontano sempre barzellette.
Odio i gruppi e i branchi.

Odio la scia di sciattume, di briciole, di cartacce, di
patatine, di bottigliette e lattine mezze piene e mezze vuote
che si lasciano dietro i branchi di gitanti.

E che non ti capiti di trovarti sul marciapiedi quando passa una
di queste processioni di escursionisti telecomandati, travolgono
tutto quanto incontrano sulla loro strada, persone, cose,
biciclette. Non ti vedono proprio. Se poi queste persone sono
ragazzini ci può scappare anche il morto o quasi. Non scherzo,
un nostro scolaro è riuscito ad investire una vecchia signora
che camminava tranquillamente sul marciapiedi, facendole rompere
il femore. Far rompere il femore a una signora di ottantacinque
anni vuol dire semplicemente accorciarle la vita.

Si può capire quindi come fossi terrorizzata all’idea di una
lunga gita in un “moderno torpedone granturismo”.

Terrorizzata o no, eccomi puntuale alla partenza nel cortile
della scuola alle sei di mattina del giorno fissato.

Gaia e Ada insieme a tutte le raccomandazioni del caso mi hanno
messo il telefonino nella borsa. Erano i primi tempi che
l’avevamo ed era ancora un modello nuovo. Adesso è obsoleto, ma
funziona ancora. Appena l’hanno visto i ragazzini se ne sono
impossessati per studiarlo e confrontarlo. Hanno subito scoperto
funzioni e giochini insospettati e me l’hanno chiesto in
prestito.

Nando mi ha dato anche un po’ di franchi francesi, l’euro era
ancora in mente Dei, con la raccomandazione di non portare a
casa monetine. Io gli ho chiesto per l’ennesima volta come fare
per trovare il controvalore in lire o in franchi, dividi per
quattro, moltiplica per otto, dividi per due. Il mio sistema è
più semplice, compro quello di cui ho bisogno, quando non ho più
soldi vuol dire che li ho spesi tutti.

Sull’autobus vediamo che c’è un ospite in più. L’autista, agile,
scattante, lombardo e pelatissimo, ha deciso di portarsi dietro
il figlio un po’ foruncoloso. Non farà comunella coi nostri
perché più vecchio di un paio d’anni.

Faccio finta di fare l’appello, dandomi un contegno. Per fortuna
c’è Torazzi, professore di matematica, che sa contare e farà lui
il conteggio. L’altro accompagnatore è Baschi, tipo tranquillo
che se non se la prende e sa tante barzellette, anche sporche.
Passa il tempo attaccato al telefonino, anche durante le
riunioni.

Appena saliti c’è la corsa per accaparrarsi i posti strategici
in fondo. I più casinisti sono tutti lì con le ragazze più... Sì
insomma quelle più. Tutto un intrico di braccia, gambe, fili di
walkman e discman. Nonostante i cartelli “Vietato mangiare e
bere in pullmann”, il pavimento comincia a coprirsi di qualcosa
che non è neve, ma un surrogato salato composto da pop-corn,
patatine, fonzies, vermini al formaggio, briciole varie. Hanno
scambiato il pullman per il sentiero di Pollicino.

Mi cerco un posto riparato e cerco di dormicchiare. Forse dormo
anche un po’ perché verso l’una arriviamo a Montecarlo.

A proposito di Montecarlo. Sono appena andata a vedere uno
spettacolo in cui la brava e simpatica Adriana Asti canta
vecchie canzoni milanesi. Il ritornello di una famosa canzone,
non so se originale o parodiato, diceva, è tutta Meerdah.. a
Montecarloo…

Tragicamente vero. Sono tutti uguali quei posti dove ci sono i
casinò, come Campione, lindi, perfetti, finti. Lavano tutto, dai
soldi ai fiori. E infatti è governato da gente la cui
occupazione più importante è giocare a far gli scemi e farsi
fotografare per le varie Eva o Novella due, tre, quattromila
scemenze.

Non c’ero mai stata io, a Montecarloo.

Visita al museo oceanografico, che è bello e interessante.
Davvero. Peccato che non avessimo organizzato una visita
guidata, così i ragazzi l’hanno visitato con lo stesso interesse
con cui avrebbero visitato un grande magazzino, probabilmente un
po’ meno. Io non riuscivo a concentrarmi.

Giro per la cittadina. Occhiata al palazzo dei principi, ricordo
male o era rosa? Viene voglia di andare a toccarlo e prenderne
un pezzettino per sentire se è dolce. Lì davanti ci sono anche
dei soldatini, veri o finti? con dei vestitini tutti colorati,
disegnati probabilmente da stilisti parigini.

Visita alla Cattedrale. Torazzi assume l’aria di circostanza.
Vedete quello è un quadro, una natività, qui ci sono dei banchi,
là delle candele, ecco l’altare in stile… , ma che stile è, mi
chiede. Eclettico, forse? No, semplicemente brutto. Continuiamo
il giro, qui si sono sposati Grace e Ranieri e anche Carolina,
ma quante, quante volte? Non te lo dico, non siamo mica in un
confessionale. Torazzi non lo si può imbrogliare, ha fatto il
liceo classico, viene da Cremona dove oltre al torrone e alla
mostarda abbondano anche le belle chiese, e poi è una persona
onesta, quindi uscendo dice, beh, a me sembra una gran
schifezza. Sottoscrivo, professore.

Ci ritroviamo all’organizzato e costoso parcheggio per i
comodissimi pullmann granturismo. Si riparte alla volta di
Nizza.

Garibaldi, Nizza e la Savoia, Pertini e altri fuorusciti, la
promenade des Anglais, l’insalata Niçoise, quella col tonno,
quanti nomi evoca Nizza.

Non c’ero mai stata. Scopro con disappunto che è una cittadona
piena di traffico.

L’autista trova l’albergo. Lontanissimo dal mare in una zona
grigia fitta fitta di case né vecchie né nuove, né alte né
basse. Strade strette. Negozi né belli né brutti.

In una zona così non può esserci un albergo a tre stelle. Due
sono state probabilmente aggiunte a mano. Non c’è posto per
parcheggiare l’autobus e non c’è hall che possa contenere 50
ragazzini urlanti ed entusiasti. L’ingresso è una stanzetta con
pareti smaltate color grigio verde, una vetrinetta sulla destra
con una collezione di bambole, sì quelle che mia mamma non mi
avrebbe mai lasciato mettere sul letto, parecchio impolverate.
Un arco che dà su una scala scura, lì accanto il bancone del
portiere. Sul bancone tre barboncini bianchi col collarino
rosso. Sembrano di peluche, ma sono veri. Dietro al bancone una
signora, francese, anche lei con collarino rosso come i suoi
barboncini, fra i quaranta e i cinquant’anni, agghindata diciamo
così alla zingara, capelli neri riccioli tinti, bocca carnosa
con labbra leggermente girate all’ingiù, orecchini pendenti,
scollatura generosa, trucco pesante. Somiglia ad una delle sue
bambole.

Accanto al bancone un aitante giovanotto siculo-marsigliese, che
però non fa nemmeno finta di darci una mano con le valigie o con
le camere, è anzi molto sgarbato coi ragazzi, probabilmente
abituato a fare il buttafuori.

Di fianco a questo squallido ingresso, una saletta per la
colazione, pareti smaltate color grigio verde, alcuni tavoli con
gambette di metallo coperti da tela cerata unticcia color
verdino. Qualche ninnolo alle pareti, qualche vasetto con fiori
finti sui tavoli.

Camere non troppo male, arredamento anni sessanta mai cambiato,
comprese sovraccoperte e tende. Un ascensore, ma anche la scala
con riccioli di polvere grigi negli angoli.

Il Bolla, un ragazzo che non ha mai aperto bocca per i due anni
che è stato mio allievo, ci informa con occhi scintillanti che
nelle vicinanze ci sono tre “bordelli”. Voleva dire “sex-shops”.

Che bello poter fare una doccia, sdraiarsi sul letto col
telecomando in mano, guardare che canali ci sono alla
televisione, rilassarsi un momento. Questi i piccoli piaceri che
mi concedo quando arrivo stanca in un albergo dopo un lungo
viaggio. Piccoli piaceri assolutamente negati in una gita
scolastica. Tutto è accelerato, come nei film di ridolini. Però
le le giornate durante le gite scolastiche hanno almeno
trentasei ore e i ragazzi non sono mai, ma proprio mai, stanchi.


Quindi niente doccia, niente tè coi biscottini, niente relax.
Via di corsa in gruppi a fare un giro per la città. Troppo tardi
per visitare un museo. Quindi a zonzo per negozi. Torazzi si
prende il gruppo degli sportivi e si avvia verso la Promenade
per un bagno in mare nonostante il cielo grigio e la minaccia di
temporale. Io un gruppo formato per lo più da ragazzine. Baschi
a quanto pare dice ai suoi di tornare per le sette e li lascia
liberi. Lui se ne va a telefonare.

Mi rassegno a seguire le mie pecorelle che corrono per la città.
Troviamo un centro commerciale. Girate qui dentro, dico. Io sto
in questo caffé e bevo finalmente il mio tè, voi vi trovate qui
fra mezz’ora.

Tutto bene.

Anche la cena, prenotata in una mensa vicino all’albergo,
procede senza incidenti. I ragazzi sempre agitatissimi, perché
si avvicina la sera, momento catartico, clou di tutta la gita,
il più temuto da noi perché le aspettative e la voglia di
trasgressione sono al massimo.

Ancora tre gruppi. Questa volta ho tutti maschi. Si parte,
ancora di corsa in giro per la città. I ragazzi trovano subito
le sale giochi, una, due tre. Spendono un sacco di soldi. Io non
so dove stare, dentro o fuori, mi sento stupida e fuori posto.
Guardo qualcuno che gioca, seguo su uno schermo delle corse
folli con grandi schianti ed esplosioni, poi cambio postazione e
guardo altri due che si buttano palline dentro un tavolo, mi
viene voglia di giocare a flipper, faccio una partita. Non sono
capace, finisco subito e mi arrabbio anche un po’. Che cosa ci
fa una signora di mezza età di sera a Nizza in una sala giochi
frequentata solo da ragazzini? Trovate l’intrusa.

Si decide di uscire.

Cammina cammina arriviamo sulla famosa promenade. La spiaggia
però non è illuminata. Qualcuno si nasconde. Io faccio finta di
cercarlo. Due anziani signori si impietosiscono e mi indicano
con fare complice il nascondiglio. Peccato che i monelli siano
più veloci di me. Nel frattempo altri sono stati inghiottiti dal
buio. Sento degli urli. Hanno preso il Puffo (un ragazzino che
somiglia effettivamente a un puffo per fattezze e dimensioni,
però non è azzurro) e stanno per buttarlo in mare. Riesco a
fermarli appena in tempo.

Dai, torniamo!

Cammina, cammina.

E’ larga la Promenade, si divertono i ragazzi a correre avanti e
indietro, come i cani. Sono le undici e mezzo. Avviamoci verso
l’albergo. Qualcuno si arrampica su un monumento equestre, un
altro su un semaforo. Non so cosa dire, sento di non avere
alcuna autorità. Mi sento ridicola, stupida, inutile, stanca e
al posto sbagliato.

Si va di qua, no di là.

Cammina , cammina.

Non sapevo che Nizza fosse così grande. Ma dov’è l’albergo. Di
qua, no, di là.

Io che mi sono sempre vantata di avere un grande senso di
orientamento non voglio chiedere. Ho una cartina e mi deve
bastare. Qualcuno comincia a urlare un po’ meno.

Cammina, cammina.

Sensazione di déjà vu. Stiamo girando in tondo. Chiedo a un
albergo. Avanti dritto, al primo semaforo a destra, poi a
sinistra. Ottimo esercizio di francese.

Qualcuno comincia a piagnucolare. Io ormai vado avanti per forza
di inerzia. Meglio, penso, così arrivano stanchi e forse
dormiranno.

Salta fuori che avevano fatto apposta a farmi sbagliare strada,
poi però anche loro non sapevano più come tornare.

Qualche luce rossa. Siamo nel nostro quartiere. Ecco l’albergo,
finalmente. Tutti a tetto. Torazzi si preoccupa lui di fare la
voce grossa e minacciare sanzioni in caso di fughe notturne.
Promette che farà un giro ogni tanto per controllare. Gli credo.
Vado a dormire abbastanza tranquilla.

Durante la notte sono svegliata da urli, pianti, rumori di
bottiglie e bicchieri, forse rotti. Strano, i nostri scolari
parlano italiano, questo mi sembra inglese. Una ragazza piange,
qualcuno grida con voce da ubriaco. La ragazza piange più forte.
Altre voci.

Vigliaccamente sto in camera, metto qualcosa contro la porta.
Sento una voce arrabbiata che parla francese, sento la voce di
Baschi che brontola. Dice che noi non c’entriamo.

La mattina scopriamo che effettivamente c’era stata gran
baraonda durante la notte, provocata non dai nostri ragazzi ma
da turisti ubriachi e violenti. Però sapendo che c’era una
scolaresca il buttafuori se l’era subito presa con noi.

Dai, la notte è passata, siamo a buon punto.

Colazione. Che buoni i croissants! Che buone le baguettes col
burro, che buono il caffè! Per me la colazione è sacra, ma devo
far di corsa anche quella!

Via tutti, sul bus, si riparte per Grasse!

Avevo appena letto “Il Profumo” di Patrick Süsskind, magnifico.
Allora prendo il microfono e mi improvviso guida. Cerco di
raccontare dei Nasi, di queste persone che hanno il dono
speciale dell’olfatto perfetto, racconto un po’ di questo
straordinario libro, così diverso. Stranamente mi ascoltano,
anche perché sono seduti e sono ancora un po’ addormentati.

Bella la visita alla fabbrica di profumi. Una gentile signorina
ci spiega i segreti della fabbricazione dei profumi. Vediamo
alambicchi, bottiglie, provette, barattoli e altri speciali
recipienti, vasi con le spezie più preziose con nomi che evocano
le mille e una notte. Siamo tutti inebriati da queste essenze
che si liberano nell’aria. Tutti comprano saponi, profumi e
lavanda per mamme, nonne e zie.

Finito. Si riparte. La strada è tutta curve. Mi sento molto
brava perché ho le cicche per il mal d’auto e le distribuisco a
pallidi e sofferenti passeggeri. Torazzi comincia anche lui a
perdere colore, mi chiede se ho ancora una di quelle cicche.

Eccoci a Saint Paul de Vence. Speravo proprio di vedere quel
famoso villaggio. Così come speravo di vedere le vetrate di
Matisse. Niente, la cappella con le vetrate è chiusa e per
visitare il centro di St Paul de Vence manca la volontà
politica. In compenso mangiamo abbondantemente.

Ecco, si comincia a sentire la musica della partenza, del
ritorno. Monsieur Hulot che finisce le sue vacanze. Il circo che
comincia a sbaraccare.

Sempre bella la riviera coi suoi ulivi, anche dall’autostrada.
Troppo complicato però per il bus scendere a Sanremo. Peccato.
Qualcuno scatta una foto a Torazzi che dorme il sonno del
giusto. Le coppie di ragazzi innamorati languidamente
abbracciati ascoltano insieme la musica dai walkman.

Ultima tappa ad un autogrill per una veloce pipì e l’ultimo
spuntino.

Domani celebreremo un Te Deum di ringraziamento.

Arriviamo puntuali a scuola. Genitori e genitrici ciacolanti in
trepida attesa dei loro pargoletti. Si scende, le famiglie si
riuniscono. Nessuno ci vede, ci allontaniamo inosservati.
Torazzi e Baschi devono farsi ancora una trentina di chilometri
per tornare a casa.

Anche questa è fatta.

Cristina
Cattaneo


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