FERDINANDO, OVVERO IL RE NUDO

Abbrivio asfittico edulcorato alla stricnina. Nell’afa leonina del 1870, Donna Clotilde Lucanegro veleggia mollemente tra le pieghe del letto sfatto delle sue malinconie insoddisfatte a strapiombo sull’azzurro Tirreno vesuviano avvelenato dall’arrivo dell’invasore piemontese. Asperrimo il suo livore esacerbato dalla bieca tracotanza del barbaro usurpatore che l’ha depredata di tutto, anche di onore e dignità. E delle proprie terre.

Sfatta nella sua atarassica ipocondria, consuma i suoi giorni sempre uguali nel tedio, accanto a Gesualda, la sua inutile compagna di ventura, la bigotta zitella inacidita dalle sue notti solitarie, tra la nenia cantilenante dei grani del Rosario snocciolati nel vomito amaro di veementi imprecazioni, in un crescente turpiloquio vaneggiante, e mille pozioni e tisane, sterili palliativi conditi dai santini merlettati di un becero prete tuttofare dall’anima ambigua.

E urla e strepita tutto il suo mesto contrappunto nell’unica lingua che conosce e che difende come una iena la sua preda.

Eduardo, dinanzi a una Napoli decadente e decaduta, aveva imbavagliato nel silenzio le sue parole in disarmo, affidandosi al crepitante linguaggio dei fuochi d’artificio, immolandosi infine nell’ignea apoteosi di fiamme e colori del crepuscolo declinante degli dei.

Ruccello invece ama vestirsi dei panni curiali imprecando come un mentecatto contro gli avidi avvoltoi che hanno dissanguato la sua terra, ricorrendo all’artificio combustivo dell’idioma partenopeo contro la lingua degli invasori sabaudi, senza poesia, “fauza”, una lengua straniera che fa schifo… pecchè nun tene manco l’eleganza d’ ‘o frangese…una lengua senza sapore e senza storia”.

Un dialetto corrosivo, quello napoletano, che non ama viscide intrusioni, né infelici gattopardismi, vestito del colore fascinoso della sua gente che sa cantare anche delle sue amaritudini, stemperato dall’incanto della sua musicalità graffiante e teatralmente sboccata, ma così intensa e verace da irrompere come un torrente in piena sulla scena della scialba presenza di tanti eroi quotidiani senz’anima retti dall’eterno burattinaio.

Tutto langue, tutto grida vendetta, tutto come sempre, come da copione, quando ecco giungere, improvviso, improvvido e inaspettato, Ferdinando, l’apparizione apollinea della giovinezza gaia che farà e disferà le trame dei gomitoli dell’esistenza di ignare figure che si muovono sul palcoscenico della vita, ingarbugliando a tal punto i fili da condurre alla miseria torbida dell’assassinio brutale.

Ferdinando, il dio solare e carnale, idolatrato, bramato come una femmina in calore, penetrato nell’intima essenza di un erotismo cupo e mefistofelico, solo alla fine rivelerà il suo perverso inganno mostrando le sue sembianze d’arcangelo nero, reietto dei cieli, che ha condotto il suo torbido gioco nel postribolo dei sensi che hanno ammainato la bandiera di ogni umana dignità.

Ma quel che brucia alla fine, più dell’inganno del cuore illuso e inaridito, più del delitto adulterino frutto della seduzione della carne, sarà l’irrisione irriverente del vero nome del divo Ferdinando che, quasi per sfregio, svelerà il suo nome certamente più caro agli odiati Savoia: Filiberto.

Nello Colombo

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