Le guerre ipocritamente dimenticate

Sulle guerre si sprecano da sempre gli aggettivi, i sostantivi, le banalità,  gli estremisti di ogni sponda ammettono l’uso  della forza, accettano l’uso di una violenza che sana altra violenza, con la pretesa di non esagerare troppo. Gli altri che ancora non conoscono il colore del sangue, non stanno da nessuna parte, se non con l’utopia della creazione di un mondo perfetto. C’è davvero un grande spreco di intendimenti corrosi dagli inganni, quando invece i morti sono morti, la guerra è guerra, il potere è potere. Occorre chiamare le cose e le persone con il loro nome, avere il coraggio di indicare, sì, la strada maestra, ma dopo avere percorso per intero   le vie laterali, quelle che hanno prodotto il presente. Bombe invisibili e morti nascosti, paesi lontani e paure vicinissime, indipendentemente dalla ragione o dalla compassione, c’è dispendio di immagini e di proclami, ma il cratere è in attesa di anime vaganti, anime con in mano il Corano o con il Vangelo. E’ un cratere che s’allarga e vomita intolleranze, però senza alcun Dio a fare da giustificazione. Addirittura non c’è più neanche paura di ciò che non vediamo, di rumori in sottofondo, di boati  e di silenzi improvvisi. Regna incontrastata l’indifferenza che procede spedita sotto i cingoli di quelli che non ammettono cedimenti. Non udire il fremito della resa alla follia, significa rimanere davvero indifesi, non sapere reagire con giustizia agli accadimenti. Morti ammazzati innocenti di là, qualche centinaio di bimbi di qua, per confermare quanto poco giova la nostra tecnologia, i nostri sistemi di sicurezza, le nostre belle rassicurazioni, quando c’è l’imprevedibilità che non pone alcun annuncio. Ci rifugiamo nella giustizia che corre sull’analfabetismo emotivo  che ci coglie ogni qualvolta siamo chiamati a porvi rimedio. Ci stiamo abituando alla guerra vera, ai morti sul selciato, a quelli che ancora respirano ma sono ruderi ambulanti. E nonostante questo palcoscenico mondiale, che non è affatto un proscenio virtuale,  ma presente e futuro all’intorno, persiste la corruzione del linguaggio, l’autoipnosi della parola attraverso una reazione che non ha mediazione, perché l’angoscia e l’inquietudine albergano tra i nostri possedimenti, non certamente nella disperazione e nel dolore di quanti a brandelli saltano per aria su una mina o una bomba sganciata assieme agli inevitabili effetti collaterali. Forse è il caso di ridimensionare l’uso di una etimologia di tendenza, e affermare che le guerre possiedono l’abito mentale dell’assassino. Forse è il caso di curarci delle parole che contano per davvero, per indurci infine a curarci di più delle persone, anche quelle che solamente tolleriamo. 

Vincenzo Andraous

 

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