CHE NE SARÀ DE “I FIGLI DEGLI UOMINI”?

Ce lo racconta il regista Alfonso Cuaron, messicano La fine è prevista verso il 2050

Le previsioni sul futuro catastrofico dell’umanità ormai sono ben note a tutti.

Ovviamente, nel massimo disinteresse e sempre con l’attenzione spasmodica all’oggi con il motto oraziano “Carpe Diem”, tant’è che la Conferenza di Nairobi (novembre 2006) da cui sono stati lanciati accorati e pressanti appelli per ridurre l’economia globale del 20% per tentare di sanare- almeno in parte- gli squilibri economici e sociali al livello di quelli generati dalle due guerre mondiali e della Grande Depressione, sono stati quasi del tutto ignorati. Anzi, spesso gli scenari catastrofici che vorrebbero ridestare l’attenzione dell’opinione pubblica, finiscono per avere l’effetto opposto.

Balliamo, in altre parole, sull’abisso dell’apocalisse totale.

Anche lo studio “Living Planet Report” non indora troppo la pillola e dice che le specie viventi sono calate del 31% tra il 1970 e il 2003 perché la biodiversità si restringe oltre qualunque capacità di metabolizzazione e reazione (Cfr.:quotidiani italiani , 25 ottobre 2006).

La fine è prevista verso il 2050.

Che ne sarà, allora, dei figli degli uomini, sempre che nasceranno ancora? Ce lo racconta il regista Alfonso Cuaron, messicano, che a Venezia 63, ha presentato un film terribile, appunto: The Children of Men( I figli degli uomini, programmato nelle sale italiane dal 17 novembre).

I figli degli uomini.

Tratto dal romanzo I figli degli uomini di P.D. James, Children of Men è ambientato nell'Inghilterra del 2027 e descrive un mondo caduto nell'anarchia, dove regnano terrorismo e infertilità. L'uomo più giovane del pianeta, il diciottenne Diego Ricardo, è appena morto e l'umanità si trova ad affrontare il rischio dell'estinzione. Il burocrate Theo Baron (Owen) diventa l'improbabile difensore della sopravvivenza della Terra. È grazie alla sua ex compagna (Julianne Moore) e all'amico Jasper ( Michael Caine) che Theo ha deciso di guidare un movimento in difesa degli immigrati, i veri perseguitati di questa realtà, e proprio quando l'ultima speranza del pianeta viene minacciata, l’attivista è costretto ad affrontare fatiche immani per difendere la terra da sicuri pericoli. Il film presenta uno scenario appartenente a un mondo non troppo futuristico, avendo utilizzato il regista le immagini della Bosnia, dell'Iraq, della Palestina e di New York in fiamme, aspetti che ricordano l'11 settembre. Il lungometraggio fosco e anticonvenzionale, fa sperare ben poco sennonché c’è all’improvviso quel vagito del neonato della ragazzina di colore davanti al quale tutti si fermano ammutoliti, quasi fosse un nuovo redentore dell’umanità che appare per migliorarla. Chissà se avverrà. Si sa, anche a livello cristiano, la speranza è l’ultima a morire e in questo film orribile pare proprio che ci sia una luce in fondo al tunnel. La pellicola è stata insignita da un OSELLA PER IL MIGLIOR CONTRIBUTO TECNICO, alla 63. ma Mostra di Venezia. Da tener presente che nel libro di P.D. James ci sono riferimenti biblici. Anche se il regista ha cercato di tenersene lontano, è cosa impossibile, per gli occidentali prescindere completamente dall'identificazione di alcuni simboli della cultura cristiana. Si tratta di archetipi: certe raffigurazioni fanno profondamente parte della nostra cultura, ed è normale collegare indubbi elementi alla sacre scrittura(ipse dixit).

Il regista

Alfonso Cuarón Orozco, é nato il 28 novembre 1961 a Città del Messico.

Cresciuto a Città del Messico; ha studiato cinema e filosofia alla "National Autonomous University of Mexico". Dopo essersi laureato, inizia a lavorare nella televisione in Messico, prima come tecnico e poi come regista. Solo con tu pareja, il suo primo film, trattava di un uomo effeminato che scopre di aver contratto l'AIDS; la pellicola ebbe successo prima in Messico e poi nel mondo. Il regista Sydney Pollack rimase così impressionato dal successo di Solo con tu pareja che assunse Cuarón per un episodi di Fallen Angels, una serie di storie noir.

Nel 1995, Cuarón gira il suo primo film prodotto negli USA, "A Little Princess", un adattamento del romanzo di Frances Hodgson Burnett. Anche il suo lavoro successivo fu un adattamento letterario: una versione in chiave moderna di "Great Expectations" di Charles Dickens. Nel cast erano presenti Ethan Hawke, Gwyneth Paltrow, e Robert De Niro.

Il suo film , Y tu mamá también, una commedia provocatoria e controversa sulla storia di due adolescenti ossessionati dal sesso e sulla loro relazione con una trentenne. La libera narrazione della sessualità e un umorismo volgare, lo resero un successo internazionale, dopo essere stato proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia.

Filmografia

• The Children of Men (2006)

• Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2003)

• Y tu mamá también (2001)

• Paradiso perduto (film 1998) - Great expectations (1998)

• A Little Princess (1995)

La crisi della denatalità

Fine della storia, fine del lavoro, fine delle nazioni, fine dell’uomo: dalla saggistica contemporanea, dai media, dai films emerge un paesaggio antropologico e sociale desolante. Uno dei fenomeni di declino dell’Occidente sembra essere ormai molto radicato e senza ritorno: la crisi della natalità. Anche i dati Istat confermano che le donne italiane non fanno più figli, e il piccolo incremento registrato ultimamente , che aveva illuso gli analisti del settore, si è rivelato casuale e transitorio. E’ difficile capire fino in fondo perché questo si verifichi, perché in un paese che fino a cinquant’anni fa pullulava di bambini oggi se ne trovino sì e no un paio per ogni condominio. Le motivazioni addotte sono sempre le stesse: crisi della coppia e della famiglia, emancipazione femminile, individualismo narcisistico, tendenza alla pianificazione e al controllo della propria esistenza, aumento dei rischi di infertilità e di aborti spontanei connessi alla maternità in età troppo avanzata. Tutto ciò ha condotto a un cambiamento davvero epocale nella percezione della continuità generazionale, della solidarietà tra generazioni e dell’orgoglio genitoriale. Chi osa oggi dire dei propri figli “Questi sono i miei gioielli!”, come con orgoglio proclamò Cornelia, la madre dei Gracchi? Prima del Sessantotto i proletari erano coloro che non avevano altra ricchezza che i figli; oggi ci si affanna a spiegare ai popoli dei paesi sottosviluppati che la figliolanza sovrabbondante non è solo indice ma fattore di povertà, e che meno bocche da sfamare significa , ovviamente, più cibo a disposizione. Però la forbice si allarga sempre di più, con il risultato paradossale che gli indicatori di natalità più bassi si rintracciano tra coloro che potrebbero ampiamente mantenere i propri figli, mentre l’esplosione demografica è un fenomeno di chi è sull’orlo della sopravvivenza. L’Occidente si è auto- persuaso che i bambini se li possono permettere solo i ricchi, perché sono fonte di spese, di preoccupazioni e non rendono. Tutti gli altri, invece, continuano a pensare che la procreazione sia un aspetto necessario di opere meritorie. C’è, da parte “occidentale” un’incomprensione che arriva fino alla condanna morale per chi si riproduce “irresponsabilmente”, cioè senza essere ricco. Eppure gli economisti spiegano che il calo demografico consente esiti disastrosi per il nostro tenore di vita, e non soltanto in termini di sostenibilità del welfare.

L’invecchiamento della popolazione vuol dire che ci sono, in circolo, meno idee nuove, meno gusto per il rischio e l’avventura, meno energie fresche, meno conoscenze all’avanguardia. Significa ripiegamento, tendenza a privilegiare la rendita e la sicurezza, meno lavoro, meno consumi e meno investimenti. Indica inesorabilmente non avere uno sguardo proiettato sul futuro, sul nuovo, sulla vita che continua e va avanti. Inoltre, la mancanza di una cultura della continuità generazionale è uguale a solitudine per gli anziani, privati del calore familiare e affidati, quando non sono più autosufficienti, alle “badanti” che non costituiscono da sole, un sostegno affettivo. Dopo aver costruito per decenni un senso comune basato sulle opzioni individuali, dopo aver screditato in ogni modo i sentimenti di responsabilità e di accoglienza familiare, dobbiamo per forza indurci ad un ripensamento. Probabilmente hanno ragione i popoli asiatici, africani, sudamericani, quasi avevano ragione i nostri antenati: i figli , in qualunque condizione, sono sempre una ricchezza.

Per rafforzare maggiormente questa riflessione, riportiamo da un Blog Il filo di Ferro, il seguente scritto:

Fare o non fare bambini? diventare genitori o lasciar perdere???

Voglio esporvi le mie perplessità: secondo voi è bene far figli in questo mondo sempre più malato e marcio? E' un pensiero che mi assilla da un po'.......... Cosa ne pensate?

Risposta

Dipende da perchè li fai. In genere si mettono al mondo figli perchè tutti lo fanno, perchè la famiglia dà un'idea di sicurezza, perchè coi figli il matrimonio sembra più stabile, o per dargli tutto quello che non abbiamo avuto noi.

Per essere consapevoli devi pensare che i tuoi figli non puoi riparali dal dolore che è universale, se puoi sopportare il loro dolore già è un buon inizio. La pretesa di fare un mondo migliore attraverso i figli è un'utopia, il mondo non è più marcio di ieri, è che si sanno più cose di ieri. Ad esempio la pedofilia era un tabù, oggi se ne parla, ma poco in confronto a quanta ce n'è. Non hai doveri di fare figli, l'indice demografico è spaventoso, a parte in Italia, ma non puoi fare figli solo per far pagare le pensioni allo stato.

Se puoi tollerare che i figli abbiano idee molto diverse dalle tue, che siano inconsapevoli e vogliano rischiare, che la tua educazione servirà a poco perchè comunque saranno influenzati dai compagni e dalla società, che potranno essere gay o trans e li dovrai amare lo stesso, che saranno sempre loro ad aver bisogno e non tu ad appoggiarti su di loro, allora fai pure figli.

Ricordati che i figli poi se ne vanno e non si riscuote mai, ed è giusto che sia così. Avrai solo impegni e nessun ritorno se non la loro riconoscenza, ma se ami davvero forse riesci ad accettarlo.

E come si fa a non citare anche la situazione dei figli degli immigrati?

Il figlio di stranieri nato in Italia deve attendere il diciottesimo compleanno, dopodiché ha la facoltà di fare domanda per acquisire la cittadinanza. Ha un anno di tempo per farlo, perde il diritto se non lo esercita entro il diciannovesimo compleanno. Inoltre deve avere risieduto in Italia senza interruzioni. Se va all'estero per un paio di anni perde il diritto.

Curiosamente, la legge sulla cittadinanza del 1992 è in un certo senso più restrittiva della precedente normativa regia del 1912, in cui esisteva un elemento di jus soli: dopo dieci anni di residenza in Italia, il minore straniero nato in Italia diveniva automaticamente cittadino.

Nel 2000 in Italia vivevano circa 277mila minori stranieri. Si tratta di un numero in fortissima crescita. In gran parte questi bambini e adolescenti parlano italiano, frequentano scuole italiane, sono destinati a rimanere nel nostro paese per il resto della loro vita e probabilmente hanno una squadra del cuore italiana. Insomma, sono in tutto e per tutto uguali ai loro coetanei di nazionalità italiana tranne che non sono cittadini. A questi membri della nostra società lo Stato manda un messaggio che suona razzista: "Non siete italiani perché non avete sangue italiano".

È difficile valutare le conseguenze di questa norma perché l'Italia è un paese di immigrazione recente. Si possono tuttavia trarre utili lezioni dall'esperienza tedesca. Fino alla riforma del 2000, la Germania aveva un sistema di jus sanguinis simile a quello italiano. Dopo decenni di immigrazione vivono in Germania più di sette milioni di stranieri e nascono ogni anno circa 100mila bambini "stranieri". Si tratta di una ferita profonda in seno alla società tedesca, che da un lato alimenta fenomeni anche violenti di razzismo e dall'altro giustifica forme di rigetto e alienazione da parte degli immigrati. Il governo tedesco ha avuto il coraggio di facilitare l'acquisizione della cittadinanza. In Italia il fenomeno migratorio è recente però è necessario agire presto perché il numero di minori stranieri cresce di circa il 20 per cento all'anno.

Vi è, tuttavia, una proposta di legge che dice che lo straniero nato in Italia da cittadini stranieri residenti nel paese da almeno sette anni potrebbe fare domanda di cittadinanza a partire dal quinto compleanno. Sarebbe bello, invece accettare il principio dello jus soli( = il criterio è il luogo di nascita. Chi nasce sul territorio nazionale è cittadino. Negli Stati Uniti, come in molte nazioni del Nuovo Mondo, vige una forma di jus soli quasi pura. Chi nasce sul suolo americano è americano in ogni caso. Invece lo jus sanguinis è un sistema che utilizza come criterio la pura e semplice appartenenza genealogica. È cittadino di un certo paese chi discende da cittadini di quel paese. Il figlio di stranieri non ha alcun diritto politico anche se è nato e cresciuto nel paese, lavora nel paese e parla la lingua del paese. In un paese ad alta immigrazione ha inevitabili implicazioni xenofobe o addirittura razziste). L'introduzione dello jus soli sarebbe una buona idea sul piano pratico. Se, come probabile, queste persone rimangono in Italia, è meglio dare loro la cittadinanza prima, anziché dopo.

E sarebbe un'idea giusta sul piano dei principi: vogliamo una società fondata sull'inclusione e la condivisione, sul rispetto dei valori e della civiltà.

E per finire, una speranza per un futuro “giovane”

E’ stato chiesto a Rosy Bindi, attuale ministro della Famiglia: Come si fa a far nascere più bambini?

Questa è la sua risposta: «Bisogna porre la famiglia al centro delle politiche del Paese. Per ogni riforma dobbiamo riflettere su quello che io definisco "l'impatto familiare". Quali che siano le scelte del governo, sul piano fiscale, del welfare, dei trasporti, della casa, della scuola, dobbiamo innanzitutto domandarci che tipo di conseguenza quelle

scelte avranno nella vita delle famiglie italiane. In questo senso il mio sarà innanzitutto un lavoro di coordinamento».

Poi? Quali saranno le prime azioni del suo ministero?

«Occorre mettere le coppie in condizione di avere tutti i figli che desiderano. Innanzitutto ci vuole una nuova conciliazione fra i tempi del lavoro e quelli della amiglia. Il part time, che la legge Biagi non promuove né incentiva, è invece una strada utile. Siamo un Paese che ha la più bassa percentuale di donne che lavorano rispetto

all'Europa. Dobbiamo facilitare l'entrata delle donne nel mondo del lavoro. I redditi delle famiglie sono così bassi anche perché lavora una persona sola. Poi c'è un problema di servizi. Vorrei moltiplicare per tre gli asili nido, che devono essere territoriali e non solo

aziendali. Infine, ne ha parlato più volte il presidente del Consiglio, vogliamo dare un assegno che accompagni il bambino dalla nascita fino ai 18 anni»(Cfr:. "Oggi", 31 Maggio 2006).

Maria de Falco Marotta & Team

GdS 10 XII 2006 - www.gazzettadisondrio.it

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