La donna che balla sul patibolo - Elena

1) Giustizia costretta alla forca

Una donna è stata costretta a salire sul patibolo. Lei come ultimo sberleffo a quel potere miserabile che la stava ammazzando, s’è messa a ballare con il cappio al collo. Una danza senza musica, senza rumore, senza parole, un dondolio assordante fino all’ultimo rantolo, nell’estremo tentativo di mantenere intatta la propria dignità, rimettendo al popolo dei giusti, peraltro assenti, quella condanna di un potere religioso, giuridico, politico, al di fuori di qualsiasi norma, legge, comando di Dio, sempre che Dio da quelle parti esista ancora o non gli sia gia’ stata tagliata la gola.  Un uomo tenta di stuprare la donna, che si difende disperatamente, riesce a sottrarsi dall’attacco di quel violento, per giunta funzionario dei servizi di Stato. Cosa fa la legge di quello Stato? La mette in galera, la tortura, la condanna a morte, infine la ricatta: se abiuri, se ritratti, se confessi di averlo ucciso per tuoi interessi, non perché ti stava violentando, ti verrà evitata la morte. Quello Stato che fonda le sue radici sulla fede che professa, inciampa rovinosamente sulle proprie contraddizioni, una piccola donna, non accettando lo scambio né la maschera di Dio offeso e umiliato, diventa una vera martire. Lei sì una vera martire. Fede, politica, giustizia, quando le dosi sono altamente squilibrate, formano un materiale ad alto potenziale, circondano un paese con il filo spinato, le ideologie rendono patetiche le preghiere, ingannevoli le lodi, che diventano minaccia e violenza, infine è forca nei riguardi di un popolo sottomesso.                                                             Eppure Dio non è uno straniero, è vivo sulla carta, sui libri, nelle parole di ciascuno, Dio non è lontano, è prossimo, non è possibile barare così malamente per chi crede Dio, quel Dio così ben pronunciato dall’alto e in basso di quella corda tesa, di quel legno a ospitarne nuovamente il corpo.
Non sarà mai una norma imposta dallo scranno più alto a travestire Dio, a farne un imbroglione e poi un assassino, fino a costringerlo di spalle a una pratica quotidiana che invece è ben vergata nel Vangelo come nel Corano, in qualsiasi libro che ne ospita le orme.                                                  C’è da chiedersi se anche questa morte sarà avvolta dai silenzi che riempiranno di dobloni sonanti le stive dei galeoni in ordinata attesa. Chissà se rimarranno i segni sparsi all’intorno per educarci davvero alla promozione umana, all’unica forma di socialità, di legalità, di giustizia possibili, perché hanno residenza e cittadinanza nella responsabilità.                                                                  La vita ingiustamente rubata a Reyhaneh Jabbari ci obbliga a non guardare da un’altra parte, a non fare finta di niente, perché ciò non è assoluzione per alcuno, ma consapevolezza che non è più sufficiente predicare il bene, è necessario praticarlo quel bene che è comune, attraverso l’impegno di tutti i giorni.
2) Elena forza davvero
Stavo riflettendo tra me e me sulla tragicità di certi accadimenti, nella mente scolpita l’immagine di questa giovane donna, nel cuore una speranza immensa e una preghiera: forza Elena, forza davvero.
Poi le parole diventano ferro bruciato, acciaio contorto, sono parole che hanno il sapore del sangue innocente mischiato al combustibile dell’ira che sale.
Le parole si piegano agli spazi, alle virgole, ai punti in sospensione, non concedono pausa, solamente lo sconcerto della disperazione.
La disperazione di chi è disperato al fondo, di chi non ha più speranza.
Le parole ancora bussano sull’uscio, fanno pressione, spingono in avanti, incrinano la voce, fanno male al cuore, parole che urlano e gridano, graffiano e lacerano, sono parole che accatastano le emozioni, le fanno rimbalzare, disperdere, finchè non rimane più niente.
Parole, che ritornano, sottovoce, in punta di piedi, sono parole di una preghiera per lo più sconosciuta, ma ben allacciata in vita a chi cammina in ginocchio, parole che urtano e scostano l’indifferenza dall’abitudine al male, parole che fanno bene alle coscienze,  parole che rimettono i piedi ben piantati alla terra, parole che  si fanno avanti e non lasciano scampo alle giustificazioni.
Mi sono chiesto non di che colore è quel male che tanto dolore ha recato, non di che dialetto è quel silenzio di spalle alla propria dignità umiliata, non di che angolo di umanità derelitta e sconfitta proviene tanta dimenticanza del giusto.
Mi sono chiesto come è possibile agire in questa maniera indicibile per la sua viltà.
Parole che non vengono, che non vanno, parole che rimangono a metà della strada, della Croce e della sua compassione, parole, ancora parole, poi è un pianto a dirotto.
Giustizia, legalità, umanità, ancora parole, questa volta non più banalità, ritornelli di un canzone vecchia come il mondo, almeno questa volta, Dio, questa volta, siano parole profetiche di un inno al rispetto e alla pratica delle leggi, come ha detto più volte qualcuno: “un'esigenza fondamentale della vita sociale per promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune”.
Elena e una città sgomenta, Elena e il desiderio di ognuno e ciascuno di fare finalmente qualcosa, soprattutto di esserti vicino, rimarcando ancora una volta, che accadimenti tragici come quello occorso a te, non solo non debbono verificarsi, ma debbono indurci, tutti, nessuno escluso, a comprendere il valore della legalità,  che significa responsabilità.
Un grande Vescovo e grande amico, don Tonino Bello, ci ha lasciato detto: «Sono convinto che il senso della morte, come quello della vita, dell'amicizia, della giustizia, e quello supremo di Dio, non si trovi in fondo ai nostri ragionamenti, ma sempre in fondo al nostro impegno».
Questa città, Elena, sarà un po’ migliore anche grazie a te.
Forza Elena, forza davvero, noi siamo al tuo fianco.
 

Vincenzo Andraous
Società