Miserie del turismo globale Turismo di massa: epifenomeno - Il rapporto turista-indigeno - La "barbarie del comfort" - La parodia delle tradizioni locali - Indiana Jones per un giorno
 
 TURISMO DI MASSA: EPIFENOMENO
 Tra gli epifenomeni della cosiddetta globalizzazione, può 
 ascriversi a tutti gli effetti il turismo di massa, 
 interpretabile, consideratane la complessità, secondo 
 differenti chiavi di lettura, ma in ultima essenza come una 
 delle manifestazioni del consumismo e del tipo umano che 
 plasma. Consumo di luoghi innanzitutto, ma anche di culture. 
 Il turismo internazionale per tutti, dopo aver preso il via 
 sotto gli auspici di una migliore comprensione tra i popoli 
 e le civiltà, mostra ormai la corda. Rappresentando un 
 affare enorme, si preferisce tuttavia continuare ad 
 ammantarlo d’idealità d’ogni tipo quando, a ben guardare, 
 altro non è se non la caricatura dell’incontro tra culture. 
 Lo si può facilmente costatare pensando, ad esempio, al 
 tipico viaggio di un gruppo di occidentali in un paese 
 orientale, di preferenza arabo.
 Il rapporto turista-indigeno
 Il più delle volte, uno dei rarissimi indigeni con cui si 
 viene a contatto nei viaggi organizzati di questo tipo è la 
 guida turistica, un uomo di una pazienza fuori del comune, 
 che deve costantemente dimostrare di essersi evoluto ad un 
 punto tale che gli consenta di reggere il confronto con 
 esponenti della cultura «più avanzata, raffinata, tollerante 
 che c’è». Egli sa bene che cosa rimane gradito agli 
 occidentali e che cosa no; per cui, nel presentare il 
 proprio punto di vista pone una estrema attenzione a non 
 debordare dai limiti di un galateo non scritto che prevede 
 di essere «democratici e tolleranti», pena l’allontanamento 
 dal servizio. Una bella tirata detta a bassa voce contro i 
 governanti del paese (meglio se invisi agli «atlantici») 
 verrà gradita dai turisti, ed un po’ d’ironia sulle proprie 
 credenze religiose farà tirare un bel sospiro di sollievo a 
 chi non dorme sotto l’incubo della marea fondamentalista.
 Adesso Mohamed – chiamiamolo così, per comodità - sta 
 simpatico a tutti: ha dipinto il suo paese con colori 
 pastello dove serviva ed è rassicurante sapere che 
 preferisce la nostra democrazia (forse un giorno gliela 
 porteranno a suon di bombe umanitarie e per sovrappiù 
 processeranno il suo «tiranno»), giacché ne esce rafforzata 
 la convinzione dei turisti occidentali di provenire dal 
 migliore dei mondi possibili. Ma la gaffe è sempre in 
 agguato dietro l’angolo e il povero cicerone indigeno che, 
 facendosi coraggio, dovesse tralasciare d’indorare la 
 pillola come prescritto dal bon ton di bordo, vedrebbe 
 immediatamente colare a picco le sue quotazioni: “Per me 
 quello lì [adesso fa orrore persino pronunciarne il nome] è 
 un integralista” è il minimo che ora il turista possa dire 
 di lui.
 Non ci vuole molto a capire che, in tal modo, il rapporto 
 tra gli indigeni e i visitatori si risolve in uno squallido 
 teatrino sul quale si mette in scena una sorta di commedia 
 ispirata al comportamento «politicamente corretto da 
 trasferta». Quello che conta è che i tre o quattro «Mohamed» 
 che hanno a che fare con il turista, diano l’impressione di 
 essere «dei nostri», anche se in cuor loro non lo sono.
 La «barbarie del comfort»
 Cittadino del mondo per antonomasia, l’occidentale che 
 frequenta da turista o da visitatore occasionale per ragioni 
 di lavoro un paese extraeuropeo si sente sempre ed ovunque 
 fuori luogo. La sporcizia lo ossessiona e vede poveri 
 dappertutto, magari perché non hanno rottamato l’automobile 
 o perché le strisce che fanno bella mostra sulle loro scarpe 
 da tennis sono quattro invece che tre. Ci si arresta al dato 
 più grossolano e si riceve puntuale conferma di quel che già 
 costituiva una verità inattaccabile: “questi qua stanno 
 peggio di noi”. Poi, una volta giunti in un albergo a cinque 
 stelle con tanto di piscina, empori, parrucchieri e quattro 
 ristoranti (di cui uno rotante e uno collocato al cosiddetto 
 «mezzanino»), vale a dire un ghetto che evita al turista il 
 contatto con quelli che, fuori, l’indomani lo aspetteranno 
 al varco, si tira un po’ il fiato dopo la scorpacciata 
 d’Oriente. E’ una gioia effimera, però. L’albergo infatti, 
 di solito costruito in barba ai più elementari criteri di 
 buon gusto e di armonia con il paesaggio, “non è niente di 
 speciale” e non risponde agli standard internazionali. La 
 contraddizione è palese.
 Certo, non è possibile pretendere lo stesso livello degli 
 hotel parigini o viennesi quando poco prima si è perlomeno 
 intuito che non ci si trova nel Paese di Cuccagna. Il 
 turista, però, «ha pagato» (e nemmeno poco) e si aspetta 
 determinate cose. Una di queste non manca mai: il cibo. Si 
 passa da un’abbuffata all’altra e va detto che è tutta roba 
 buona! Il turista si trasforma in una sorta di piccolo 
 maragià che, per una settimana o due, non solo non dovrà 
 «pensare a niente» tranne che a svagarsi (cioè a dimenticare 
 «il migliore dei mondi possibili»), ma condurrà una vita 
 all’insegna del lusso e dello spreco. Si rifletta, in 
 proposito, sulle camere che, pur essendo utilizzate al 
 massimo per due notti, vengono lustrate quotidianamente fino 
 ad essere consumate (lo stesso dicasi per la biancheria), 
 con evidenti conseguenze di carattere ambientale, 
 specialmente in quelle aree di particolare intensità 
 turistica che in breve tempo hanno visto decuplicare il 
 numero dei visitatori (la costa egiziana del Mar Rosso, fino 
 a non molto tempo fa pressoché disabitata, è, ad esempio, 
 attualmente presa nella morsa degli affaristi locali e delle 
 catene di alberghi internazionali, oppressa da chilometri e 
 chilometri di alberghi da favola già realizzati o in 
 costruzione: un comportamento la cui miopia non fa neppure 
 intravedere che, a questi ritmi, a breve il paradiso 
 naturale che attira i turisti risulterà compromesso).
 La parodia delle tradizioni locali
 La vacanza del turista-consumatore a caccia di esotismo e di 
 emozioni forti è dunque un sapiente dosaggio di comfort 
 dispensato negli alberghi a cinque stelle e nelle rest house 
 che ne punteggiano l’itinerario, di avventura calcolata col 
 misurino e di sbocconcellatura delle tradizioni locali, 
 delle quali il tour operator ha la pretesa di regalare 
 momenti autentici ed unici. Appena due isolati fuori 
 dell’albergo si organizzano perciò patetiche messe in scena 
 notturne: ad un’ora stabilita viene montata una adeguata 
 scenografia comprensiva di tenda - ovviamente «beduina» -, 
 pozzetto riciclabile in finta muratura che i più attenti, di 
 passaggio la mattina seguente dall’ex accampamento in festa, 
 giureranno di aver visto, una pattuglia raccogliticcia di 
 improbabili danzatrici, in realtà le figlie dei furbastri 
 che indossano i panni dell’allevatore nomade le cui uniche 
 stagioni che contano sono in realtà quelle «alta» o «bassa» 
 dei flussi turistici.
 Il turista - una gallina spennata a ogni piè sospinto - 
 assapora inoltre momenti «genuini» di quella virtù che a 
 tutti i costi deve riscontrare nella gente del posto, forse 
 perché non è più in grado di esercitarla a casa propria: 
 l’ospitalità. Si bevono quantità industriali di bevande: il 
 tè al negozietto della paccottiglia, o a bordo piscina, per 
 distogliere l’attenzione da un disguido nell’organizzazione, 
 il caffè all’arrivo in albergo, il liquore all’anice seduti 
 su un cocuzzolo all’ora del tramonto. In mezzo a tanta 
 fiction, il momento in cui la vera ospitalità locale entra 
 nella vita del turista comunque arriva, ma questi non 
 soltanto non la riconosce, bensì se ne dimostra 
 fondamentalmente indegno. Si provi ad esempio, in una 
 giornata di maltempo che rende impossibile il previsto 
 pranzo al sacco, a far accomodare la comitiva presso una 
 locanda lungo la strada, i cui proprietari accolgono senza 
 battere ciglio una ventina e passa di persone, che al 
 massimo consumeranno solo qualche tè. Il risultato? 
 Espressioni disgustate, la faccia tosta di chiedere decine 
 di posate per sbucciare la frutta del pranzo al sacco (!), 
 il tè lasciato lì perché il bicchiere è «sporco», un 
 malumore montante.
 L’ammutinamento è perciò sempre latente e spetterà al 
 nostromo di un vascello troppo in balia degli umori della 
 ciurma ricondurre i suoi capipopolo alla ragionevolezza, 
 distribuendo piatti abbondanti della pietanza preferita: 
 l’avventura.
 Indiana Jones per un giorno
 L’«avventura» che il turista richiede è l’esatto contrario 
 di un’esperienza di quel tipo. Tutto è talmente organizzato 
 che al momento e al punto prestabilito, sbucano dal nulla 
 dei «cammellieri» disposti a farti fare un giretto a peso 
 d’oro. Si gira e si rigira tra canyon e dune sabbiose in 
 modo da dare l’impressione di trovarsi in un deserto 
 sconfinato, quando questo è in effetti di pochi chilometri 
 quadrati e non dista molto dalla caffetteria, gestita dai 
 parenti dei cammellieri in questione. Non sono ammessi colpi 
 di scena e se non si riesce a vedere il tramonto nel luogo 
 prestabilito (la copia del programma, inseparabile, viene 
 costantemente impugnata dagli escursionisti), qualcuno 
 minaccia di telefonare nel proprio paese. Si va in 
 fuoristrada dappertutto e pur di non percorrere in pullman 
 il «sud», ormai dotato di strade ben asfaltate, ci si 
 accalca in macchinoni equipaggiati di tutto punto, e se 
 possibile si allunga il percorso «impraticabile» per far 
 guadagnare bene anche gli autisti. Ma nelle stagioni di 
 punta non resta neanche più un barlume di quell’impressione 
 di eccezionalità dell’esperienza che l’organizzazione ha 
 preparato per gli aspiranti Indiana Jones. Lanciati verso 
 l’accampamento a folle velocità, dal finestrino, attraverso 
 un gran polverone, si materializzano altri sciami di 
 avventurieri, e nei loro occhi sgranati si riflette tutto 
 l’orrore di chi non vuol credere di essere stato 
 turlupinato. Così, affinché il dubbio non divenga certezza, 
 l’accampamento risulterà rigidamente esclusivo. Nessuno, 
 all’infuori del gruppo recante le insegne di questo o quel 
 tour operator (bustine, cappellini, magliette, adesivi sulle 
 jeep), vi avrà libero accesso, ma se solo i Nostri 
 vincessero la paura del buio per avviarsi verso il più 
 vicino costone di roccia scoprirebbero che, ben nascosti per 
 una sorta di par condicio del diritto all’avventura, 
 bivaccano altri simili con le loro insegne.
 L’«avventura» va comunque in scena anche nei mercatini delle 
 città: si capita sempre «casualmente» nel negozietto del 
 cugino della guida, ci si perde nell’ora di libertà, ci si 
 pavoneggia di fronte agli altri per l’affare concluso con 
 qualche coriaceo venditore.
 La straordinarietà dell’avventura inclusa nel pacchetto 
 tutto compreso risiede quindi solo nel suo essere fuori 
 dell’ordinarietà più banale, nel suo distogliere (?) dalle 
 beghe quotidiane e nel suo rappresentare sì un’eccezione 
 rispetto alla vita di tutti i giorni, ma un’eccezione 
 ordinaria quanto basta affinché possa essere comunicata - 
 perché alla portata di tutti (e non ci riferiamo ai 
 portafogli) - ad altri, una volta tornati a casa: il rituale 
 del filmino, delle foto, degli acquisti, degli aneddoti, 
 fungerà da effetto moltiplicatore. Sulla riproducibilità di 
 situazioni ed esperienze nelle quali i luoghi, le culture e 
 le persone rappresentano il palcoscenico della 
 riproposizione - a migliaia di chilometri di distanza - 
 delle fisime e delle nevrosi di gente viziata e annoiata, 
 l’organizzazione costruisce la sua fortuna, mettendo cura 
 però - nel più puro stile consumistico - di offrire Orienti 
 sempre «differenti», «alternativi», «magici», «classici» o 
 «in libertà», ma fondamentalmente sempre più monotoni ed 
 insapori.
Enrico Galoppini
 GdS 28 VIII 02
