Miserie del turismo globale Turismo di massa: epifenomeno - Il rapporto turista-indigeno - La "barbarie del comfort" - La parodia delle tradizioni locali - Indiana Jones per un giorno

di Enrico GaloppiniTurismo di massa: epifenomeno - Il rapporto turista-indigeno - La "barbarie del comfort" - La parodia delle tradizioni locali - Indiana Jones per un giorno


TURISMO DI MASSA: EPIFENOMENO

Tra gli epifenomeni della cosiddetta globalizzazione, può
ascriversi a tutti gli effetti il turismo di massa,
interpretabile, consideratane la complessità, secondo
differenti chiavi di lettura, ma in ultima essenza come una
delle manifestazioni del consumismo e del tipo umano che
plasma. Consumo di luoghi innanzitutto, ma anche di culture.
Il turismo internazionale per tutti, dopo aver preso il via
sotto gli auspici di una migliore comprensione tra i popoli
e le civiltà, mostra ormai la corda. Rappresentando un
affare enorme, si preferisce tuttavia continuare ad
ammantarlo d’idealità d’ogni tipo quando, a ben guardare,
altro non è se non la caricatura dell’incontro tra culture.
Lo si può facilmente costatare pensando, ad esempio, al
tipico viaggio di un gruppo di occidentali in un paese
orientale, di preferenza arabo.

Il rapporto turista-indigeno

Il più delle volte, uno dei rarissimi indigeni con cui si
viene a contatto nei viaggi organizzati di questo tipo è la
guida turistica, un uomo di una pazienza fuori del comune,
che deve costantemente dimostrare di essersi evoluto ad un
punto tale che gli consenta di reggere il confronto con
esponenti della cultura «più avanzata, raffinata, tollerante
che c’è». Egli sa bene che cosa rimane gradito agli
occidentali e che cosa no; per cui, nel presentare il
proprio punto di vista pone una estrema attenzione a non
debordare dai limiti di un galateo non scritto che prevede
di essere «democratici e tolleranti», pena l’allontanamento
dal servizio. Una bella tirata detta a bassa voce contro i
governanti del paese (meglio se invisi agli «atlantici»)
verrà gradita dai turisti, ed un po’ d’ironia sulle proprie
credenze religiose farà tirare un bel sospiro di sollievo a
chi non dorme sotto l’incubo della marea fondamentalista.

Adesso Mohamed – chiamiamolo così, per comodità - sta
simpatico a tutti: ha dipinto il suo paese con colori
pastello dove serviva ed è rassicurante sapere che
preferisce la nostra democrazia (forse un giorno gliela
porteranno a suon di bombe umanitarie e per sovrappiù
processeranno il suo «tiranno»), giacché ne esce rafforzata
la convinzione dei turisti occidentali di provenire dal
migliore dei mondi possibili. Ma la gaffe è sempre in
agguato dietro l’angolo e il povero cicerone indigeno che,
facendosi coraggio, dovesse tralasciare d’indorare la
pillola come prescritto dal bon ton di bordo, vedrebbe
immediatamente colare a picco le sue quotazioni: “Per me
quello lì [adesso fa orrore persino pronunciarne il nome] è
un integralista” è il minimo che ora il turista possa dire
di lui.

Non ci vuole molto a capire che, in tal modo, il rapporto
tra gli indigeni e i visitatori si risolve in uno squallido
teatrino sul quale si mette in scena una sorta di commedia
ispirata al comportamento «politicamente corretto da
trasferta». Quello che conta è che i tre o quattro «Mohamed»
che hanno a che fare con il turista, diano l’impressione di
essere «dei nostri», anche se in cuor loro non lo sono.

La «barbarie del comfort»

Cittadino del mondo per antonomasia, l’occidentale che
frequenta da turista o da visitatore occasionale per ragioni
di lavoro un paese extraeuropeo si sente sempre ed ovunque
fuori luogo. La sporcizia lo ossessiona e vede poveri
dappertutto, magari perché non hanno rottamato l’automobile
o perché le strisce che fanno bella mostra sulle loro scarpe
da tennis sono quattro invece che tre. Ci si arresta al dato
più grossolano e si riceve puntuale conferma di quel che già
costituiva una verità inattaccabile: “questi qua stanno
peggio di noi”. Poi, una volta giunti in un albergo a cinque
stelle con tanto di piscina, empori, parrucchieri e quattro
ristoranti (di cui uno rotante e uno collocato al cosiddetto
«mezzanino»), vale a dire un ghetto che evita al turista il
contatto con quelli che, fuori, l’indomani lo aspetteranno
al varco, si tira un po’ il fiato dopo la scorpacciata
d’Oriente. E’ una gioia effimera, però. L’albergo infatti,
di solito costruito in barba ai più elementari criteri di
buon gusto e di armonia con il paesaggio, “non è niente di
speciale” e non risponde agli standard internazionali. La
contraddizione è palese.

Certo, non è possibile pretendere lo stesso livello degli
hotel parigini o viennesi quando poco prima si è perlomeno
intuito che non ci si trova nel Paese di Cuccagna. Il
turista, però, «ha pagato» (e nemmeno poco) e si aspetta
determinate cose. Una di queste non manca mai: il cibo. Si
passa da un’abbuffata all’altra e va detto che è tutta roba
buona! Il turista si trasforma in una sorta di piccolo
maragià che, per una settimana o due, non solo non dovrà
«pensare a niente» tranne che a svagarsi (cioè a dimenticare
«il migliore dei mondi possibili»), ma condurrà una vita
all’insegna del lusso e dello spreco. Si rifletta, in
proposito, sulle camere che, pur essendo utilizzate al
massimo per due notti, vengono lustrate quotidianamente fino
ad essere consumate (lo stesso dicasi per la biancheria),
con evidenti conseguenze di carattere ambientale,
specialmente in quelle aree di particolare intensità
turistica che in breve tempo hanno visto decuplicare il
numero dei visitatori (la costa egiziana del Mar Rosso, fino
a non molto tempo fa pressoché disabitata, è, ad esempio,
attualmente presa nella morsa degli affaristi locali e delle
catene di alberghi internazionali, oppressa da chilometri e
chilometri di alberghi da favola già realizzati o in
costruzione: un comportamento la cui miopia non fa neppure
intravedere che, a questi ritmi, a breve il paradiso
naturale che attira i turisti risulterà compromesso).

La parodia delle tradizioni locali

La vacanza del turista-consumatore a caccia di esotismo e di
emozioni forti è dunque un sapiente dosaggio di comfort
dispensato negli alberghi a cinque stelle e nelle rest house
che ne punteggiano l’itinerario, di avventura calcolata col
misurino e di sbocconcellatura delle tradizioni locali,
delle quali il tour operator ha la pretesa di regalare
momenti autentici ed unici. Appena due isolati fuori
dell’albergo si organizzano perciò patetiche messe in scena
notturne: ad un’ora stabilita viene montata una adeguata
scenografia comprensiva di tenda - ovviamente «beduina» -,
pozzetto riciclabile in finta muratura che i più attenti, di
passaggio la mattina seguente dall’ex accampamento in festa,
giureranno di aver visto, una pattuglia raccogliticcia di
improbabili danzatrici, in realtà le figlie dei furbastri
che indossano i panni dell’allevatore nomade le cui uniche
stagioni che contano sono in realtà quelle «alta» o «bassa»
dei flussi turistici.

Il turista - una gallina spennata a ogni piè sospinto -
assapora inoltre momenti «genuini» di quella virtù che a
tutti i costi deve riscontrare nella gente del posto, forse
perché non è più in grado di esercitarla a casa propria:
l’ospitalità. Si bevono quantità industriali di bevande: il
tè al negozietto della paccottiglia, o a bordo piscina, per
distogliere l’attenzione da un disguido nell’organizzazione,
il caffè all’arrivo in albergo, il liquore all’anice seduti
su un cocuzzolo all’ora del tramonto. In mezzo a tanta
fiction, il momento in cui la vera ospitalità locale entra
nella vita del turista comunque arriva, ma questi non
soltanto non la riconosce, bensì se ne dimostra
fondamentalmente indegno. Si provi ad esempio, in una
giornata di maltempo che rende impossibile il previsto
pranzo al sacco, a far accomodare la comitiva presso una
locanda lungo la strada, i cui proprietari accolgono senza
battere ciglio una ventina e passa di persone, che al
massimo consumeranno solo qualche tè. Il risultato?
Espressioni disgustate, la faccia tosta di chiedere decine
di posate per sbucciare la frutta del pranzo al sacco (!),
il tè lasciato lì perché il bicchiere è «sporco», un
malumore montante.

L’ammutinamento è perciò sempre latente e spetterà al
nostromo di un vascello troppo in balia degli umori della
ciurma ricondurre i suoi capipopolo alla ragionevolezza,
distribuendo piatti abbondanti della pietanza preferita:
l’avventura.

Indiana Jones per un giorno

L’«avventura» che il turista richiede è l’esatto contrario
di un’esperienza di quel tipo. Tutto è talmente organizzato
che al momento e al punto prestabilito, sbucano dal nulla
dei «cammellieri» disposti a farti fare un giretto a peso
d’oro. Si gira e si rigira tra canyon e dune sabbiose in
modo da dare l’impressione di trovarsi in un deserto
sconfinato, quando questo è in effetti di pochi chilometri
quadrati e non dista molto dalla caffetteria, gestita dai
parenti dei cammellieri in questione. Non sono ammessi colpi
di scena e se non si riesce a vedere il tramonto nel luogo
prestabilito (la copia del programma, inseparabile, viene
costantemente impugnata dagli escursionisti), qualcuno
minaccia di telefonare nel proprio paese. Si va in
fuoristrada dappertutto e pur di non percorrere in pullman
il «sud», ormai dotato di strade ben asfaltate, ci si
accalca in macchinoni equipaggiati di tutto punto, e se
possibile si allunga il percorso «impraticabile» per far
guadagnare bene anche gli autisti. Ma nelle stagioni di
punta non resta neanche più un barlume di quell’impressione
di eccezionalità dell’esperienza che l’organizzazione ha
preparato per gli aspiranti Indiana Jones. Lanciati verso
l’accampamento a folle velocità, dal finestrino, attraverso
un gran polverone, si materializzano altri sciami di
avventurieri, e nei loro occhi sgranati si riflette tutto
l’orrore di chi non vuol credere di essere stato
turlupinato. Così, affinché il dubbio non divenga certezza,
l’accampamento risulterà rigidamente esclusivo. Nessuno,
all’infuori del gruppo recante le insegne di questo o quel
tour operator (bustine, cappellini, magliette, adesivi sulle
jeep), vi avrà libero accesso, ma se solo i Nostri
vincessero la paura del buio per avviarsi verso il più
vicino costone di roccia scoprirebbero che, ben nascosti per
una sorta di par condicio del diritto all’avventura,
bivaccano altri simili con le loro insegne.

L’«avventura» va comunque in scena anche nei mercatini delle
città: si capita sempre «casualmente» nel negozietto del
cugino della guida, ci si perde nell’ora di libertà, ci si
pavoneggia di fronte agli altri per l’affare concluso con
qualche coriaceo venditore.

La straordinarietà dell’avventura inclusa nel pacchetto
tutto compreso risiede quindi solo nel suo essere fuori
dell’ordinarietà più banale, nel suo distogliere (?) dalle
beghe quotidiane e nel suo rappresentare sì un’eccezione
rispetto alla vita di tutti i giorni, ma un’eccezione
ordinaria quanto basta affinché possa essere comunicata -
perché alla portata di tutti (e non ci riferiamo ai
portafogli) - ad altri, una volta tornati a casa: il rituale
del filmino, delle foto, degli acquisti, degli aneddoti,
fungerà da effetto moltiplicatore. Sulla riproducibilità di
situazioni ed esperienze nelle quali i luoghi, le culture e
le persone rappresentano il palcoscenico della
riproposizione - a migliaia di chilometri di distanza -
delle fisime e delle nevrosi di gente viziata e annoiata,
l’organizzazione costruisce la sua fortuna, mettendo cura
però - nel più puro stile consumistico - di offrire Orienti
sempre «differenti», «alternativi», «magici», «classici» o
«in libertà», ma fondamentalmente sempre più monotoni ed
insapori.
Enrico Galoppini



GdS 28 VIII 02

 

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